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Libri

L’orrore muto del caso Varani

“La città dei vivi” di Nicola Lagioia

di Martin Hofer / 21 dicembre

«Venerdì 4 marzo fu commesso l’omicidio. Il giorno dopo Roma fu inondata dalla pioggia».

I fatti sono noti a tutti: il 5 marzo 2016, mentre si sta recando al funerale dello zio, il ventottenne Manuel Foffo confessa al padre di aver ucciso una persona nel suo appartamento con la complicità di Marco Prato, noto pr romano conosciuto a una festa di Capodanno e rivisto soltanto in un’altra occasione.

Il nome della vittima Manuel non lo conosce neppure, il movente semplicemente non c’è, ma nella faticosa ricostruzione dei tre giorni trascorsi in compagnia di Prato e di una montagna di cocaina emerge nitida una certezza: la morte non è stata indolore, al contrario, è stata un’agonia, un atto di purissima e inspiegabile crudeltà.

Le cronache hanno poi reso noti i particolari. Luca Varani, 23 anni, è stato torturato e ucciso con oltre cento colpi di martello e coltello dopo essere stato attirato in via Igino Giordani con la scusa di una prestazione sessuale a pagamento. Manuel Foffo, reo confesso, è stato condannato a trent’anni di carcere dopo essere ricorso al rito abbreviato. Marco Prato si è ucciso nel carcere di Velletri alla vigilia della prima udienza, lasciando a parenti, giornalisti e curiosi un senso di smarrimento difficile da razionalizzare.

Il caso Varani ha rappresentato sin da subito il soggetto ideale per libri, documentari e film, ma, contrariamente a quanto si potesse immaginare, così non è stato. Tra gli scrittori e i registi italiani più apprezzati, nessuno fino a questo momento aveva osato confrontarsi con l’accaduto sotto un profilo autoriale che prendesse le distanze dai moralismi da talk show e dalla morbosità della nera, forse per paura di toccare questioni troppo delicate, forse per la difficoltà di raccontare una vicenda che, da sola, supera di slancio la più originale delle fantasie letterarie.

Ci prova adesso Nicola Lagioia con La città dei vivi (Einaudi, 2020), il prodotto di anni di ricerche, interviste e riflessioni (e ossessioni?) maturate in seguito a un reportage commissionatogli nel 2016 da il Venerdì.

Partiamo da una considerazione: se altri scrittori avessero raccolto il guanto di sfida e si fossero cimentati nell’impresa, credo che La città dei vivi continuerebbe a rappresentare una delle migliori versioni possibili.

Lagioia non scade mai nel sensazionalismo, non addita i mostri, scava nei verbali e nelle deposizioni, incontra persone, si reca nei posti. Da un punto di vista puramente letterario, il montaggio dei capitoli si rivela perfetto (si parte dalla confessione di Manuel, si torna indietro ai mesi precedenti per arrivare, un passo alla volta e dolorosamente, all’omicidio), la narrazione ti costringe a non mollare neanche per un attimo le oltre 450 pagine e a concludere la lettura il più in fretta possibile.

Sulle orme del Meyer Levin di Compulsion e del Carrère di L’avversario, l’autore osserva con curiosità i due assassini, scandaglia i loro abissi interiori, valuta le ipotesi psicologiche (l’omicidio rituale, il contagio psichico) in certi casi arriva perfino a empatizzare con loro, e al tempo stesso documenta il suo calarsi sempre più a fondo nella storia come individuo, una storia che all’apparenza non lo riguarda, ma che per qualche motivo fa risuonare in lui corde familiari.

I confini di un discorso mediatico asfittico vengono allargati da una polifonia di voci, srotolati per mostrare le pieghe che la cronaca non è riuscita – o non era interessata – a trattare, mettendo in luce alcuni elementi che all’epoca mi avevano molto colpito.

Il primo: il fatto che gli orientamenti sessuali di Varani e di Foffo abbiano occupato uno spazio preponderante nel racconto proposto dai media e dagli stessi protagonisti. Nessuno lo diceva esplicitamente, ma era come se si stesse insinuando che l’aver avuto rapporti con uomini avesse aggiunto un’ulteriore nota di depravazione al carnefice, e determinato un contrappasso per la vittima.

Ma è possibile confessare un omicidio nei suoi dettagli più scabrosi e aver timore che l’opinione pubblica ti identifichi come omosessuale? E di fronte a una morte così atroce, la pretesa di «difendere l’onore» di Luca dalle voci che lo descrivevano come una sorta di ragazzo di vita che si prostituisce per fare piccoli regali alla ragazza e per tentare il colpaccio ai videopoker ha una qualche sensatezza o è soltanto la riprova di quanto l’immagine che abbiamo dei nostri affetti sia spesso lontana dal restituirci la totalità di una persona?

«Le assicuro che per Manuel è più facile pensare di aver ucciso qualcuno per il gusto di farlo che immaginare di essere gay». (Marco Prato)

«A noi Foffo non ci piacciono i gay, ci piacciono le donne vere. E mio figlio non è da meno». (Valter Foffo)

«Tutti respingevano con rabbia l’ipotesi che Luca si prostituisse. La respingevano perché la reputavano disonorevole, perché vittima e carnefici si sarebbero ritrovati altrimenti sullo stesso piano, e anche perché assecondarla significava assecondare il racconto del nemico. […] Respingere l’idea che Luca si prostituisse significava negare una narrazione falsa anche se fosse stata vera, marcia quanto più era lastricata di buone intenzioni».

Il secondo: il ruolo del caso. Luca non era stato scelto, aveva soltanto avuto la sfortuna di rispondere a uno degli sms inviati dagli assassini, di arrivare nell’appartamento quando i due avevano ormai raggiunto l’apice del loro delirio. Eppure, nella sua vita, Luca era stato scelto. Infatti, dopo anni di pratiche per richiedere l’adozione, i coniugi Varani si erano finalmente recati in ex Jugoslavia per realizzare il loro sogno.

All’orfanotrofio trovarono la sorpresa. I bambini adottabili erano addirittura tre e loro avrebbero dovuto sceglierne uno. Non se l’erano immaginata così, credevano che l’assegnazione sarebbe stata automatica in base a documenti e priorità, e invece ogni cosa era affidata al loro arbitrio.

Che cosa ne sarebbe stato di Luca senza l’incontro con i genitori? E dove sarebbe ora se quel 4 marzo 2016 non avesse risposto al messaggio di Prato? Impossibile non domandarselo.

Il terzo: la figura di Marco Prato. Per molti un manipolatore, un seduttore di eterosessuali incline al ricatto, per altri un ragazzo fragile alla faticosa ricerca della sua vera identità. Le numerose testimonianze raccolte da Lagioia e i verbali dei due assassini non chiariscono fino in fondo la sua posizione. È stato Marco a ispirare il massacro oppure la sua colpa è stata quella di non aver saputo placare la furia di Manuel? E il tentato suicidio nell’albergo di piazza Bologna dopo il delitto deriva da un pentimento fino a qual punto sincero?

La verità la conoscono soltanto gli assassini ed è destinata a non essere mai rivelata, a maggior ragione dopo l’uscita di scena di Prato, trovato morto nella sua cella la mattina della prima udienza, già rinviata in ben due occasioni a seguito di uno sciopero dei penalisti. Anche qui, il caso che torna…

Ma se preso come indagine il libro sembra funzionare alla perfezione, come opera letteraria, invece, mostra alcuni lati meno convincenti.

Il reiterato ammiccamento a una Roma suburra – bellissima e feroce, eterna e fatiscente, meravigliosa e corrotta – non si rivela in ultima analisi né causa né effetto di ciò che si sta raccontando, il collegamento con un altro fatto di cronaca avvenuto in città è tutto sommato labile.

«Il vecchio anfiteatro comparve all’improvviso in fondo al viale, così pallido e grigio, simile alla luna quando è bassa all’orizzonte e sembra venirti addosso. Il Colosseo nell’aria fredda di marzo, tra le cartacce, i senzatetto, l’acqua putrida nelle fontane. Poco distante, coperto a malapena da una siepe, un signore di mezza età stava pisciando all’aria aperta. Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai».

I ratti al Colosseo, i tassisti che vengono alle mani con i clienti, lo spaccio, i disservizi, possono rappresentare davvero l’humus dal quale trae linfa una vicenda così assurda, o costituiscono semplicemente un set nel quale sembra più comprensibile collocare i fatti?

La stessa perplessità si ripresenta quando Lagioia riflette sulla possibilità di un male puro che s’impossessa degli esseri umani:

«Esiste una malvagità dei luoghi?, mi chiedevo, si può parlare di persistenza fisica del male dopo che è stato consumato? O è solo suggestione?»

«Era sorprendente l’aspetto di Marco. Ma era sorprendente anche l’aspetto dell’appartamento. In apparenza era lo stesso ambiente della notte precedente, eppure tutto lì dentro sembrava galleggiare in un’atmosfera nuova, come se tra quelle mura ribollisse qualcosa, e ancora meglio, come se, una volta entrati, si fosse scaraventati a chilometri di distanza».

«Ne parlavano come se ad agire non fossero stati loro ma qualcos’altro, un oscuro regista che aveva preso il sopravvento».

In realtà, come ben evidenzia il libro in altri passaggi, credo che la peggior colpa di Foffo e Prato stia nell’aver liberato un male insito nella nostra natura umana, un male che non cala dall’alto, ma che risiede in ognuno noi. Non c’è un momento preciso e prestabilito in cui tutto ciò è avvenuto. Ci sono state tante piccole scelte volontarie che hanno poi reso l’omicidio inevitabile. Dopo che si è pianificato un festino a base di coca e alcol, dopo che si è fantasticato di violenze e ricatti, dopo che si è iniziato a invitare conoscenti a casa, a drogargli i drink, dopo che si è usciti nella notte per cercare qualcuno da assoldare per uno stupro non si sa quanto simulato, cos’altro può accadere di differente?

Del tutto forzato appare invece il legame che spinge l’autore ad appassionarsi al caso e a sentirsi in qualche modo coinvolto da un punto di vista personale. Dobbiamo attendere oltre metà libro e una sana dose di suspense per capire di cosa si tratta: un giovane e tormentato Nicola Lagioia che sfoga le sue inquietudini con piccoli atti vandalici nel corso della sua adolescenza barese e che, qualche anno più tardi, valuta di prostituirsi per far fronte a un lavoro promesso e poi saltato nei suoi primi giorni di vita romana. Cosa vorrebbe suggerirci l’autore? Che basta poco per ritrovarsi Manuel Foffo o Luca Varani? Che è sufficiente un periodo di vulnerabilità per diventare vittima o carnefice?

L’omicidio in questione ci parla di qualcosa di molto più complesso di un male che ci prende, rendendoci inermi, o di una ragazzata che si trasforma in tragedia. Questo Lagioia dimostra di saperlo perfettamente. E se in certi passaggi non sembra riuscire a descrivere questa complessità senza fare ricorso a espedienti narrativi non è certo per suo demerito. Il problema, a mio avviso, risiede in un’impossibilità, da parte della scrittura, di arrivare oltre un certo limite, se non avvalendosi del conforto dei suoi strumenti. Di fronte all’assurdità e all’incomprensibilità dell’orrore la scrittura normalizza, trovando riparo nei più classici tòpoi letterari del giallo o del thriller, di fronte all’inaccessibilità delle persone la scrittura risponde con i personaggi, di fronte al fascino, per certi versi morboso, che nutriamo nei confronti di un fatto di sangue la scrittura ripassa le tappe del viaggio dell’eroe (la chiamata, il rifiuto, gli alleati ecc.).

Quello che resta di La città dei vivi è un senso di impotenza e di irreparabilità, oltre ad alcuni particolari recuperati dalle numerose sottotrame che entrano a far parte, spesso a titolo minore, della vicenda principale e che Lagioia non si risparmia dal ricostruire scrupolosamente. I poliziotti che, sbagliando piano, tentano di fare irruzione nell’appartamento di una vicina, la app di calciatori che Foffo sognava di sviluppare «per svoltare», un’orda di eterosessuali che pur di non fare i conti con la propria sessualità preferiscono considerarsi vittime del malefico carisma di Prato, l’agghiacciante presa di coscienza da parte di Damiano Parodi e Alex Tiburtina di non essere al posto di Luca Varani giusto per un dettaglio, Marco e Manuel che, sfiniti, dormono in camera da letto con il cadavere di Luca a pochi passi, un risentimento diffuso che cova a partire dalla famiglia e che si riversa nella società. Storie di assassini e di vittime, che ancor prima di essere assassini e vittime sono state innanzitutto persone.

«Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento si impara, è frutto di un’educazione. Il primo è assai più misterioso».

 

(Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, 2020, 472 pp., euro 22, articolo di Martin Hofer)