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Libri

Quando l’autobiografia diventa un fatto di cronaca

Il caso di Emmanuel Carrère e la provocazione di Edouard Louis

di Paulina Spiechowicz / 13 marzo

Mentre il premio Goncourt 2020 è stato assegnato a Hervé Le Tellier per il libro L’anomalia (La nave di Teseo, 2021), a discapito di quello che sembrava essere il favorito, Yoga di Emmanuel Carrère, scartato in seguito alle accuse legali della moglie, l’8 dicembre scorso è stato reso pubblico il verdetto del tribunale che ha incolpato di stupro Riadh B., il “Reda” di Storia della violenza (Bompiani, 2016), libro nel quale Edouard Louis racconta la sua aggressione.

 

Quando il dibattito critico – e la letteratura in generale – passano dai circuiti letterari al banco degli imputati, viene spontaneo interrogarsi su quella che Edouard Louis definisce come una «rivoluzione comparabile alla proliferazione del romanzo propria al diciannovesimo secolo». Su di un post pubblicato nel mese di settembre su Instagram e ripreso da alcuni quotidiani francesi, tra cui Libération, lo scrittore si felicita della fine della “finzione”: il romanzo è morto, la narrazione in prima persona l’ha divorato. Diversi libri accompagnano la didascalia della foto, tra cui quello di Annie Ernaux, Ocean Vuong, Deborah Levy e Patty Smith. «L’autobiografia è una delle forme più potenti politicamente», scrive il giovane autore che considera il genere come una delle forme più d’avanguardia per pensare il reale. Aggiunge poi come i tempi nei quali Zola scriveva di operai per mostrare la loro condizione siano finiti: «abbiamo accesso a tutte queste informazioni, non serve più un intermediario. Solamente l’io è attraversato dal mondo, dalla sua portata storica e sociale». Edouard Louis politicizza un’evidenza editoriale che in questi ultimi due mesi ha attraversato il dibattito letterario in Francia: il romanzo Yoga di Emmanuel Carrère. Barra al contempo quel luogo che poi è piuttosto un non-luogo del fare letterario – l’immaginario –, da Kafka a Gabriel Garcia Marquez, da Bolaño a Thomas Mann, dalla Kristof alla Munro.

Passiamo allora al caso Carrère. Recentemente, l’autore francese – conosciuto per alcune delle biografie più violente di questi ultimi anni, come quella dell’assassino Jean Claude Romand (L’Avversario, 1993) o dello scrittore russo Limonov (Limonov, 2011) – migrava verso il genere autobiografico e pubblicava il suo ultimo romanzo, Yoga (P.O.L, 2020), giusto in tempo per la rentrée littéraire, quel periodo che coincide con il ritorno sui banchi di scuola e che, nel milieu dell’editoria, vede gli editori stampare le migliori promesse e farli competere nei vari premi letterari. Tra ottobre e novembre si susseguono in Francia il Prix Médicis, Femina, Renaudot, Inter, Fnac, Giono, Flore, Deux Magots, il Goncourt e il Goncourt dei liceali. La selezione esce a ottobre, il vincitore è annunciato a novembre. Tutta la stampa letteraria ruota attorno a questi eventi, così come gli scaffali in libreria, e il più importante è sicuramente il Goncourt che corrisponde allo Strega italiano. Yoga non ha tardato a passare la prima selezione, tra elogi e record di vendite. Lo scrittore narra uno scorcio della sua vita, sviscera la depressione, l’internamento, l’elettroshock, poi la ripresa con la meditazione, lo yoga e un viaggio di qualche mese in un campo di migranti su di un’isola greca che lo ha portato verso la via della guarigione. Ma ecco che la seconda selezione del premio ha visto una battuta d’arresto: l’autore è stato scartato dalla lista dei finalisti. In causa, il processo con l’ex-moglie: su Vanity Fair, Hélène Devynck ha voluto chiarire la sua posizione. Oltre al fatto che Carrère ha firmato un contratto secondo il quale è obbligato a chiederle il consenso qualora volesse utilizzarla a scopi narrativi, la Devynck lo accusa di non aver presentato i fatti così come sono realmente accaduti. «La letteratura è quel luogo dove non si mente», scrive Carrère. Secondo la Devynck, la storia, presentata come autobiografica, è falsa. Emmanuel ha fatto della sua malattia psichica una descrizione compiacente: «il lettore potrà così credere che dopo il ricovero, l’autore ne esce grazie ai due mesi trascorsi tra i rifugiati a Leros, peccato però che i due mesi siano durati solo qualche giorno e hanno avuto luogo prima, e non dopo il ricovero». Sorge, da questa disputa legale, il dubbio di quanto ci sia di vero e di autentico in un’autobiografia. E se l’io sia una messa in scena o una postura (o impostura) letteraria?

La questione è del resto lungi dall’essere una novità, come mostra per esempio la diatriba che ha accompagnato per anni gli studi ariosteschi: a lungo si è pensato che le Satire fossero una serie di missive di stampo autobiografico dedicate al cardinale Ippolito d’Este, mentre studi recenti hanno evidenziato che si tratta di componimenti letterari. Allo stesso modo, lo scrittore polacco Witold Gombrowicz ha redatto non uno, bensì due diari: il primo – pubblico – è uscito mensilmente sulla rivista dell’emigrazione polacca “Kultura”, l’altro – Kronos – è invece rimasto inedito fino a poco tempo fa e ha rivelato l’immagine di un Gombrowitcz ben diverso, più intimo, ipocondriaco, spocchioso. È qui che l’autore sonda le perversioni, la bisessualità, la promiscuità, poi la malattia, la routine quotidiana, la paura della morte. Gli esempi, insomma, di questo passaggio tra vita e letteratura, tra finzione e auto-finzione, sono numerosi (non a caso lo stesso Gombrowicz aveva trovato ispirazione in un’altra autobiografia romanzata, quella di André Gide).

D’altronde, proprio Edouard Louis negli scorsi mesi è stato oggetto di cronaca: si è da non molto chiuso il processo di Riadh B, personaggio che appare nel romanzo intitolato Storia della violenza, accusato – nella vita reale – d’aggressione sessuale dal giovane autore francese. In aula, giudici e avvocati sono alle prese con diverse narrazioni: quella del romanzo, che si è sostituita alla parola dello scrittore – assente al processo –, quella di un amico dell’accusato, che parla di “complicità amicale”, e quella dell’indagine, che ha proceduto a tentoni tra testimonianze e finzione letteraria. I fatti: il 24 dicembre 2012, rientrando da una cena di Natale, Edouard Louis incrocia Riadh B., che si fa chiamare “Reda”. Sono le tre del mattino. «Sei bello», dice l’algerino. Edoaurd Louis lo invita a salire da lui. I due bevono vodka e fanno l’amore più volte. Nella denuncia sporta l’indomani, Edoaurd Louis evoca dei “rapporti consenzienti e protetti”. Dopo però i fatti si complicano. Uscito dalla doccia, Edoaurd Louis si accorge di non avere più né il tablet, né il telefono, e accusa “Reda” di furto. L’altro tenta di strangolarlo con una sciarpa e, dopo averlo minacciato con un’arma, lo penetra con forza senza preservativo. Il mattino seguente, Edoaurd Louis si reca all’ospedale per prendere una triterapia preventiva ed evitare i rischi di contagio dall’AIDS. Il pomeriggio, Didier Eribon e Geoffroy de Lagasnerie lo convincono a denunciare l’accaduto. La perizia medica realizzata l’indomani rileva delle ecchimosi su diverse parti del corpo, il collo soprattutto, e delle lesioni anali. Lo stesso giorno, nell’appartamento di Edoaurd Louis, la polizia recupera il DNA del sospetto. Solamente cinque anni dopo, nel gennaio 2016, quando Riadh B. sarà arrestato per un affare di stupefacenti e il suo DNA prelevato, se ne ritroveranno le tracce. Incarcerato in detenzione provvisoria, sarà liberato undici mesi dopo. Per una coincidenza di calendario, lo stesso mese, Edouard Louis pubblica Una storia della violenza.

Alla barra degli accusati, Riadh B. ammette di aver avuto con la vittima una relazione «focosa ma non brutale» e nega lo stupro. Didier Eribon, chiamato a testimoniare, evoca in aula le insonnie e i sonniferi che la vittima prende per dormire, «l’ha descritto nel suo romanzo», aggiunge, mentre nella sua arringa il magistrato Emmanuel Pierrat ricorda i propositi del cliente fatti durante la promozione del libro: «La mia ossessione era di scrivere la verità». «Non siamo qui per parlare del libro – risponde il giudice – ma solo dei fatti», ciononostante il romanzo è onnipresente nel processo, al punto che l’avvocato di Riadh B. si appella alle conclusioni della psicologa: «Edouard Louis gioca con l’immaginario e rischia di perdersi». Il caso è stato archiviato a favore della vittima: il procuratore ha chiesto quattro anni di prigione per Riadh B. La deliberazione è stata resa nota l’8 dicembre.

Ma lasciamo da parte il caso giuridico e torniamo alla finzione: perché si dovrebbe parlare di fine del romanzo – per riprendere il proposito di Edouard Louis – per legittimare la corrente letteraria di cui si è fatto il portavoce? È indubbio che Storia della violenza sia un testo lodevole per la scrittura diretta, cruda, senza poesia, immediata così come immediata è la violenza, che non concede abbellimenti né retorica. Ciononostante, la forza della sua esperienza può considerarsi una ragione valida per svalutare la potenza dell’immaginario? A tal proposito, vale la pena di terminare questa riflessione facendo appello a un altro testo che gioca sulla dimensione ambivalente della verità, la Trilogia della città di K (Einaudi, 1998) di Agota Kristof. Si tratta di un libro splendido ma devastante. Vi si narra la storia di due fratelli (o forse si tratta di uno solo?), dei traumatismi della guerra, della violenza dell’abbandono, della morte. Verso la fine, qualcuno domanda a uno dei due se abbia scritto la verità oppure abbia inventato tutto. Al ché lui risponde: «cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. Le dico che cerco di raccontare la mia storia, ma non ci riesco, non ne ho il coraggio, fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero».