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Proviamo a immaginare

“Che cosa c’è da ridere” di Federico Baccomo

di Fernando Coratelli / 16 marzo

Si può provare a immaginare qualcosa di diverso, che serva a tenere memoria dell’Olocausto, il peggiore evento del secolo scorso? Sì, si può tentare. Ne è convinto Federico Baccomo col suo nuovo romanzo Che cosa c’è da ridere (Mondadori, 2021).

Baccomo a ogni romanzo si impegna per sorprendere il lettore – muta voce, tematica, suggestioni e ossessioni; tuttavia un fil rouge resta nella sua intera produzione: l’umorismo. Da lì non si scosta, sai con certezza, quando stai per aprire un’opera di Baccomo, che ci troverai una strada che si nutre di umorismo – tragico, nero o felice che possa essere.

Neanche stavolta si discosta da quel tema. Però alza il tiro, rischia tutto e si mette in gioco pericolosamente, proprio come uno stand-up comedian che, invitato sul palco più prestigioso, decide di cambiare repertorio e non usare le battute che lo hanno portato lì. E se poi il pubblico non ride? Già, ma deve rischiare, altrimenti può restarsene nel suo teatrino di provincia, fra gli amici soliti che ridono e lo applaudono. Ecco, Baccomo in questo romanzo fa un’operazione simile. Getta via la sua comfort zone e prova un doppio carpiato. Diciamo subito che gli riesce, forse il grande tuffo ha qualche sbavatura, ma resta un tuffo da qualifica olimpionica.

La storia racconta le vicende di Erich Adelman, un giovane ebreo mingherlino («che si sentiva di andare per il mondo come uno che ha sempre le scarpe slacciate»), orfano di madre, che nella Berlino di Weimer ha la balzana idea di voler diventare un comico, invece di proseguire l’attività paterna di cappellaio. Qui c’è la prima grande sfida di Baccomo; non è semplice scegliere come protagonista un comico, perché vuol dire sviscerare la sua professione, vuol dire tentare di creare un repertorio di battute.

Di primo acchito mi vengono in mente altri due romanzi che si sono lanciati in un’impresa simile: Applausi a scena vuota di David Grossman e Allah Superstar di Y.B., con alterne fortune. Ma Baccomo sa destreggiarsi, con astuzia va a pescare dalla tradizione yiddish (del resto Erich non è un ebreo?) cui fa seguire qua e là alcune sue battute originali. Riesce quindi a creare un personaggio non solo credibile, ma addirittura di alto profilo comico, così da giustificare anche a noi lettori il successo che ottiene in breve tempo.

La prima parte del romanzo è imperniata appunto sugli inizi di Erich, osteggiato da suo padre, inviso ai suoi coetanei, pian piano si ritaglia uno spazio nei cabaret berlinesi. Tutto fila per il meglio, riesce addirittura a far innamorare di sé Anita, una bellissima cantante che fin da ragazzino era stato il suo sogno erotico, tanto da cominciare a collaborare con lei, scrivendole canzoni di successo che lo portano a essere scritturato dal più importante teatro, il KadeKo. E la storia potrebbe finire qui, come dice il narratore a pagina 102. Già, potrebbe con il lieto fine del «vissero felici e contenti», ma così non sarà e non sarebbe potuto essere. Per chi conosce la Storia, sa bene che Weimer significa anticamera del momento più buio della Germania e dell’Europa del secolo scorso. Allora, «questa storia, purtroppo, è qui che comincia davvero».

Baccomo con delicatezza narrativa e brillante semplicità riesce a farci sprofondare lentamente nell’orrore, prima le leggi di segregazione, poi la Notte dei lunghi cristalli, che segna il primo punto di non ritorno: «La Germania degli anni Trenta [era diventata] un mondo che seguiva delle regole assurde come quelle delle barzellette». Allora, Erich e suo padre Rudolf a malincuore decidono di fuggire a Amsterdam. Qui muta anche il rapporto fra i due. Se finora Rudolf era sempre stato aggressivo e infido col figlio, tanto da accusarlo ripetutamente di essere l’assassino di sua madre (morta di parto), adesso comincia a aprirsi con Erich, a raccontargli di sé, del suo passato, «come se cercasse nella memoria […] la forza per affrontare questo viaggio».

Grazie a suo cugino Misha, i due trovano sistemazione a casa della signora Van Ingen, una donna stramba e grassa, dal carattere insopportabile che però a un certo punto prova un debole per Rudolf. Le cose sembrano andare meglio, anche in Olanda Erich trova il modo di proseguire la sua strada di comico; ma come si sa a un certo punto i tedeschi invadono l’Olanda, cosicché per gli ebrei – e per Erich, suo padre e il cugino Misha – le cose precipitano un’altra volta. I tre restano in casa della signora Van Ingen e si nascondono in una sorta di sottofondo, una cantina di difficile individuazione. Qui Baccomo pare prendere un po’ ispirazione dalla vicenda della famiglia di Anna Frank, e descrive quel vivere sottoterra da topi con la speranza di sopravvivere come unico e solo motore per resistere.

Una sera Anita, che è andata a Amsterdam per vedersi con Erich, cade in un tranello ordito dal figlio della signora Van Ingen che si è venduto i tre ebrei a delle SS. È così che i tre vengono arrestati e portati subito nel campo di smistamento di Westerbork, in attesa di essere mandati in uno di concentramento a Est.

Siamo nel pieno della guerra, e la «guerra è anche questa cosa qui: un mucchio di pagine che rimangono bianche», sottolinea con aspra lucidità il narratore. Eppure a Westerbork accade qualcosa di inimmaginabile. Erich nel campo di prigionia incontra tale Max Erlich, un ebreo che era stato responsabile di una sezione di cabaret dell’Associazione Culturale Ebraica, nei primi tempi in cui Hitler aveva preso il potere. Max spiega al protagonista che lì, nel campo hanno allestito un teatrino in cui cantanti, musicisti e comici prigionieri si esibiscono per il sollazzo del responsabile, Gemmeker, e degli altri soldati e SS che gestiscono Westerbork.

Erich non crede alla fortuna capitatagli, sebbene all’inizio si faccia parecchi scrupoli di natura morale: è legittimo far ridere i propri carnefici?, si domanda. Sì, in fin dei conti «siamo umani, e loro questa cosa non ce la possono togliere, solo noi possiamo rinunciarci, e io non voglio rinunciarci», e accetta. Anzi, riesce a far scritturare anche suo cugino Misha, che è pianista, e in questo modo vede salva la sua vita e quella di suo padre, che viene risparmiato altresì per non inficiare le performance di Erich.

Il romanzo di Baccomo, da questo punto, non si limita più a immaginare la vicenda di un ragazzo ebreo che sognava di fare il comico incastonato nella grande Storia. Bensì entra anche nei meccanismi della realtà storica del campo di Westerbork, che vide per davvero Gemmeker organizzare ogni martedì sera uno spettacolo teatrale per tirare su di morale gli ebrei che avevano visto la morte in faccia – infatti il martedì mattina era il giorno destinato al terribile appello col quale orde di persone venivano fatte salire sui carri bestiame in direzione Auschwitz. Così l’autore di fianco alla Storia, pone la storia di Westbork usando Erich Adelman.

L’ultima parte del romanzo si incunea drammaticamente con la famigerata «soluzione finale», così da far assumere sempre più al romanzo i connotati della commedia amara, oggi spesso citata ma di rado utilizzata dagli autori.

Baccomo struttura il romanzo attraverso brevi paragrafi titolati, che rimandano subito al Don Chisciotte di Cervantes, o all’Isola di Arturo di Elsa Morante. È una scelta felice, che ricalca una narrazione orale, breve, fatta per canti. Per lo stesso motivo sceglie una narrazione in terza persona, seppure venga spesso indicato un «tu» che ascolta, che parrebbe il lettore, ma che Baccomo svela nel finale. Sono meccanismi che funzionano, che tengono salva la memoria e al contempo osano allegorie drammatiche coi nostri tempi. Pochi gli appunti da fare, forse in qualche passaggio dialogico non sempre si comprende la scelta di alcune sgrammaticature – («te poi sei basso ma c’hai gli occhi di uno…») in fin dei conti Erich e gli altri parlano tedesco, non italiano. Altrettanto il tentativo di storpiare l’italiano per far parlare un personaggio polacco, che chiaramente parla male il tedesco, è un po’ forzato, più macchiettistico che altro. E in questo romanzo lo si poteva tranquillamente evitare.

Per il resto, usa uno stile asciutto e ben calibrato, che si adegua anche alla narrazione che compie nelle tre diverse sezione di cui si compone il libro. Un romanzo che poteva risultare azzardato e che invece Baccomo riesce a domare e a tenere, alternando risate e lacrime con gran dignità.

 

(Federico Baccomo, Che cosa c’è da ridere, Mondadori, 2021, pp. 312, euro 18, articolo di Fernando Coratelli)