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Ritratto di un minore di successo

A proposito di “I superflui” di Dante Arfelli

di Giovanni Bitetto / 19 aprile

Il silenzio lo scegli o ti sceglie, il problema è che non sai mai se sei tu ad essergli andato incontro o viceversa. Una regola che può funzionare nella vita (ma in verità niente funziona in maniera assiomatica) e che, come suggerisce la parabola di Dante Arfelli, può essere applicata alla scrittura.

A cento anni dalla nascita di Dante Arfelli la neonata casa editrice readerforblind ripubblica I superflui, il capolavoro dello scrittore romagnolo, con la prefazione di Gabriele Sabatini. Sarebbe già tutto qui se non fosse che Arfelli è sconosciuto ai più, almeno al giorno d’oggi. Perché al tempo della prima pubblicazione, nel 1949, il romanzo di Arfelli fu un vero e proprio caso letterario: stampato da Rizzoli, capace di vincere il Campiello, edito in America da Scribner, che in quegli anni pubblicava Ernest Hemingway, venduto in numero di copie esorbitanti. Bastò un altro romanzo dalla tiepida accoglienza per ridurre Arfelli al sopracitato silenzio.

Ma forse un certo mutismo era già in Arfelli, pur all’apice della fama. Uno spaesamento esistenziale che era proprio della sua generazione. Nato negli anni Venti in Emilia, trasferitosi a Cesenatico, fin da giovane frequenta grandi in essere – il poeta Marino Moretti – e in potenza – il compagno di scuola Federico Fellini –, prima di compiere gli studi a Bologna, inframezzati dall’esperienza come artigliere alpino in Montenegro durante la Seconda guerra mondiale. Una vita di provincia che viene sconquassata dalla guerra, un passaggio sul palcoscenico della storia, bardati dalla divisa e dalle morti dei compagni, per poi ritornare nell’umbratile quotidianità. L’allucinazione di una gioventù del genere aveva segnato Arfelli e tanti altri come lui.

Il disagio esistenziale che permea I superflui nasce proprio da questo: ci troviamo di fronte un romanzo che segue le vite in tono minore di pochi personaggi, Luca, appena sbarcato a Roma in cerca di un lavoro, Lidia, una prostituta di cui si innamorerà, i pigionanti di una pensione sdrucita che nulla ha da invidiare a quella di Madame Vauquer in Papà Goriot. Sono parabole che raccontano l’immediato dopoguerra e la disillusione di una ricostruzione lenta, permeata dalla sfiducia in un futuro perito sul campo di battaglia. Capitolo dopo capitolo la tensione del romanzo di formazione viene elusa: ogni tentativo di emancipazione si risolve in un buco nell’acqua. Lidia sogna di emigrare in Argentina e cerca un protettore degno di questo nome, confondendo i bisogni materiali con la sfera dei propri desideri. Luca vede nella città il campo da gioco per la sua affermazione e spera che una raccomandazione gli valga un posto sicuro, ma la lettera del parroco del suo paese e quella del segretario della sezione locale del Partito socialista non basteranno, le piccole forze che governano la provincia italiana si eclissano al confronto con la feroce vita urbana, si fa strada l’amaro sentimento della superfluità.

Volendo parafrasare: Arfelli ci racconta cosa succede allorquando il partigiano Johnny torna dalla guerra ed è costretto a trovare un’occupazione. Basta questo per innescare la catarsi generazionale e fare di Arfelli un autore afferrato, una fama forse incontrata per caso, perché l’opera del giovane scrittore si discosta dalla predominante vulgata neorealista: la Roma di Arfelli è scarna, accennata, un campo neutro in cui si disegnano le carambole di personaggi senza meta; e così la prosa, precisa e avulsa dai regionalismi, sobria come le passioni dimesse mostrate dai protagonisti, i dialoghi puliti, mai sopra le righe. Ci approcciamo ai lidi interiori di Camus più che ai solidi ambienti di Moravia.

Il romanzo successivo, La quinta generazione, che indagava sostanzialmente gli stessi temi, ebbe un buon riscontro, senza però raggiungere i fasti del precedente. Successivamente Arfelli diradò le frequentazioni letterarie e si impiegò come docente nella sua città, pubblicando solo dopo decenni alcune opere per editori locali. Non è dato sapere l’intima ragione per cui Arfelli si lasciò eclissare velocemente, ma possiamo intuire che, per la visione della vita espressa in I superflui, il mondo non gli appartenesse. Il corso della storia è andato da un’altra parte, l’avvento della società dei consumi ha colmato in altre maniere il vuoto della generazione nata fra le due guerre, lo smarrimento esistenziale si è manifestato per altre vie. E Arfelli, consciamente o meno, ha deciso di celarsi nel periplo della ricerca interiore, in attesa che sensibilità affini, come forse in questo momento storico, lo riscoprissero.

 

(Dante Arfelli, I superflui, readerforblind, 2021, 320 pp., euro 17, articolo di Giovanni Bitetto)