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Viaggio al centro della letteratura

“Le maestose rovine di Sferopoli” di Michele Mari

di Davide Tamburrini / 16 novembre

Qualora vi accadesse un giorno di viaggiare sulla Strada Provinciale 921, potreste incappare in alcune, curiose, sorprese: al km 2.225 nientemeno che il km 2.225; superata Bulicame, subito dopo aver preso la meta-via 55, ritrovarvi soli con voi stessi scoprendolo insopportabile; oppure notare, sulla sinistra, le maestose rovine di Sferopoli, con i loro bastioni di mica e basalto.

Tranquilli, non vi trovate in uno degli incubi di H.P. Lovecraft, ma nel nuovo libro di Michele Mari, la raccolta di racconti Le maestose rovine di Sferopoli, uscita lo scorso settembre per Einaudi, nella collana dei Supercoralli. Sulle bandelle laterali che incorniciano il libro, leggiamo: «Ogni ossessione a Sferopoli è già stata catalogata, qualsiasi mito o superstizione trova conferma, i sogni sono moneta corrente, la letteratura è l’unica divinità». Lungo l’arco narrativo che lega il filo delle pagine, l’indicazione risulta estremamente preziosa per cercare di orientarci fra gli argomenti trattati all’interno di queste storie piene di meraviglie, e vale la pena cercare di non dimenticarla.

Una precisazione: dei ventisei racconti che compongono questa raccolta solo tredici risultano inediti. Gli altri sono stati ripescati vuoi da precedenti edizioni vuoi da alcuni giornali nazionali (Il Corriere della Sera, Vanity Fair, la Repubblica). Questo per spiegare quanto appaia difficoltoso individuare una poetica comune, una connessione che possa dare un senso concreto ai diversi temi. A meno di non dimenticare il memorandum che poche righe sopra abbiamo ricordato: «La letteratura è l’unica divinità».

Già, perché questa sembra essere la sola direttiva presente, la stella cometa che guida i nostri passi verso i dintorni diroccati di una Sferopoli dai contorni biblici, così come la vediamo rappresentata in copertina. E lo capiamo immediatamente dal primo racconto, intitolato proprio “Strada Provinciale 921” , dove assistiamo a un’imitazione parodistica del linguaggio turistico delle guide o dei programmi tv della domenica mattina. Mentre siamo trasportati attraverso i luoghi fantastici che si snodano fra le tortuosità del suo percorso, ci viene fornita una rubrica completa dei ristoranti o degli hotel migliori in cui sostare. Così, in caso vi capitasse di transitare dalle parti di S. Cristina è fortemente consigliato lo Splendor, «44 camere tutte con b. e aria cond., frigo-bar, pay tv, posteggio, minigolf», mentre invece attardandovi al km 1.897 trovereste solo il «nulla. Presagi, o forse strascichi, del boato cosmico».

In Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari si diverte, sperimenta, gioca con la lingua e con il lessico, portando agli estremi le infinite possibilità che la letteratura nasconde in nuce. E lo fa con uno stile unico, inconfondibile, che tuttavia non disdegna a volte di mimetizzarsi con altri modelli illustri: accade per esempio in “Il falcone”, dove, imitando in tutto e per tutto lo stile di Boccaccio, Mari dà alla sorte del povero Federigo degli Alberighi un’alternativa ben più beffarda rispetto a quella lieta narrata nella nona novella della quinta giornata del Decameron.

Mancano a questo punto solo i sogni e le ossessioni. Una buona scusa per fare un passo indietro e scovare alcuni temi che da sempre appassionano lo scrittore milanese. È il caso ad esempio di “Argilla”, uno tra i racconti inediti più riusciti, che narra di una folle gara che ogni anno si terrebbe fra gli otto rabbini più potenti del mondo, per stabilire chi sia in grado di creare il golem migliore, più forte e resistente. Si potrebbe pensare a una lotta alla pari, fra leali eruditi ed esperti di Scritture, all’insegna del rispetto reciproco. Ebbene, niente di più sbagliato: fra inganni, colpi bassi e mosse proibite, la competizione genera continuamente invidie e frustrazione, specialmente, manco a dirlo, da parte dei perdenti.

E come non pensare allo stralunato personaggio di Walter Benjamin tratteggiato in un precedente romanzo dell’autore quale Tutto il ferro della torre Eiffel? In una Parigi dalle tinte esoteriche, il filosofo, rifugiatosi nella capitale francese per sfuggire alle angherie della propaganda nazista, avrà spesso a che fare con strane creature del folklore celtico e della cabala ebraica, tra cui proprio il golem ha un ruolo di fondamentale importanza. Qui, guidato dal caso tra i pochi passages ancora rimasti in piedi a causa della ripianificazione urbanistica voluta dal barone Haussmann, Benjamin dovrà difendersi continuamente dagli assalti dei personaggi più assurdi e dalle proprie personali idiosincrasie. Ossessioni morbose, che sfoceranno la notte nei sogni più movimentati: «Persino il Golem, che fu il signore incontrastato degli incubi della mia infanzia, mi sembra adesso un parente un po’ noioso, addirittura patetico…»

Una vena creativa, dunque, che non disdegna affatto alcuni “paesaggi” storici – non quelli fatti di guerre e date ma quelli letterari, filosofici e più in generale culturali –, e che si ingegna a inventare realtà parallele o diverse, finali alternativi in cui l’immaginazione possa essere libera di cavalcare le frastagliate creste dei suoi slanci. Un po’ quello che succede in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, il cui spunto nasce dalle vicende biografiche di Giacomo Leopardi, che vengono romanzate all’interno di una Recanati immersa in un’atmosfera goticheggiante alla Edgar Allan Poe.

Insomma, leggendo Le maestose rovine di Sferopoli l’ultima cosa che può capitare è annoiarsi. Mari si conferma maestro insuperato della costruzione narrativa, permeando quasi sempre i suoi racconti di un sottile velo d’ironia che assume di volta in volta una sfumatura diversa: mentre in “Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate” l’intento è quello di parodiare, criticare e far riflettere – il funerale di un padre di famiglia è l’occasione per smascherare l’ipocrisia borghese –, in “Boletus Edulis” l’accesa rivalità fra due parroci dell’alta Val Seriana ha il solo scopo di divertire, far ridere, anzi far sganasciare dalle risate. Si «bucina» infatti che fra don Piero e don Mario non corra proprio buon sangue; c’è chi dice a causa di una perpetua «di forte polpaccio e procace nel busto», chi per una mancata prebenda vescovile. In realtà, la radice della vexata quaestio sembrerebbe trovarsi nella passione che entrambi condividono per i funghi, e non per dei funghi qualsiasi, ma per il re della categoria: il Boletus edulis, volgarmente detto porcino. E quale umiliazione più grande si può infierire all’avversario se non quella di trovare nel fondo del sottobosco il porcino più grande, più turrito e più gustoso «donde poi, nelle cucine delle canoniche, prelibati spadellamenti di trífola e grigliamenti delle macrocappelle»?

Ma concludiamo per una volta dall’inizio, quando armati di pazienza, da poco superato il km 1.087, avevamo intravisto il cartello che ci dava il benvenuto alle maestose rovine di Sferopoli.  È  consigliabile «armarsi di coraggio, mettere in sonno la ragione e accettare il fascino sinuoso dell’ignoto». Non resta quindi che mettervi comodi, allacciare le cinture e fare un buon viaggio.

 

(Michele Mari, Le maestose rovine di Sferopoli, Einaudi, 2021, 176 pp., euro 18, articolo di Davide Tamburrini)