Libri
Voci e volti di Sibilla, o dell’arte di tessere storie
Su “Nome non ha” di Loredana Lipperini ed Elisa Seitzinger
di Giulia Eusebi / 23 novembre
Nome non ha (Hacca, 2021) è un esperimento letterario che porta le firme di Loredana Lipperini ed Elisa Seitzinger, dove la prima ha avuto cura di tessere la trama delle parole e la seconda ha ordito il testo con le sue illustrazioni. Il risultato è un libro difficilmente ascrivibile a un genere distinto e connotato, bensì è un’opera che tenta di racchiudere in sé più anime possibili: una fiaba d’iniziazione, un libro sull’importanza della narrazione, un romanzo breve e schietto su come l’eterno cerca di permeare un presente irrequieto ma ristagnante, un volume dove parole e immagini si fondono come accade nei tomi che arricchiscono le biblioteche antiche.
L’occasione letteraria si genera, quasi con il sapore di una pièce teatrale, dal fortuito arrestarsi di una macchina con a bordo tre giovani ragazze in viaggio dalla grande città verso una località di mare. Il caso le costringe a sostare in un paesino sconosciuto e sperso nell’appennino marchigiano, Serravalle di Chienti, in attesa di riparare il guasto. Da qui la possibilità di partecipare a una cena condivisa con chi si è gentilmente offerto di aiutarle.
Niente di tutto ciò avrebbe valore in un’estate che corre dritta verso la spensieratezza della riviera. Eppure, qualcosa concorre a bloccare questa corsa per donare alle protagoniste, e al lettore, un’opportunità.
Questo è lo scopo di Nome non ha, un’opportunità da cogliere per conoscere le storie che si annidano tra i monti − che Leopardi chiamava azzurri, ammirandoli dalla sua finestra – e ricordare la ricchezza poliedrica di un personaggio ancestrale come la Sibilla, che senza presunzione alberga in sé una narrazione universale.
D’altronde, un libro che si incentra sulla figura della Sibilla − o delle Sibille − non può che essere ammaliante e ubiquo, in grado perciò di presenziare a più terreni letterari in contemporanea, senza per questo perdere di compattezza.
Nondimeno, è alla fiaba, o meglio alla lunghissima tradizione letteraria dei cantastorie, che si rifà il libro, il quale fin dall’incipit dichiara in modo onesto e cristallino la sua missione: «Sette sono gli amici che servono le storie, perché sanno che consegnarle ad altri non significa solo mantenerle vive. Le storie vivono comunque: non ci sono rovine e pietre e frane e ruderi e inghiottitoi per seppellirle, e sempre si apriranno fessure che ne condurranno la voce per il mondo. L’atto del consegnare, come avviene nel settimo giorno del settimo mese di un anno da non precisare, significa soprattutto trasformare chi ascolta, sapendo che a sua volta si farà servitore: perché le storie mettono radici invisibili e profonde, e i nostri pensieri, e dunque le nostre azioni, muteranno dopo averle incontrate».
Nome non ha, che anche nel titolo porta traccia di una Sibilla − essendo il titolo il verso iniziale di una poesia di Sibilla Aleramo −, si fa carico di un nobile compito: quello di riportare nel presente questa figura molteplice, perché «le Sibille sono un altro aspetto delle Dee dimenticate. […] Dimenticato ma non cancellato. Le cose cambiano nome ma non essenza».
Nel non avere nome, la Sibilla è una e tante, è donna carnale e dea, ma in ogni caso non smette mai di dare corpo a un essere che è per prima cosa voce, e quindi racconto.
E si ritorna così alla centralità della narrazione come valore sostanziale di ogni essere vivente.
Allora, nel cuore di quei monti chiamati appunto Sibillini, in una terra plurima, le Marche, che possiede una Sibilla bianca e una Madonna nera, appare quasi più semplice «esprimere una cosa nei termini di un’altra» e non per creare ambiguità, bensì per aprire i tempi presenti a una nuova sostanziazione, perché è «così che gli uomini e le donne sopravvivono: con le storie che qualcuno ha raccolto e narrato a qualcun altro», in un eterno movimento circolare di narrazione e ascolto che incarna il ciclo vitale dell’uomo. L’essere umano esiste nel suo profondo proprio nel momento in cui è in grado di raccontarsi e di essere raccontato, perché questo genera il seme che sarà germoglio delle generazioni future.
Ed è per questo motivo che c’è spazio per tutto nel libro di Lipperini e Seitzinger, per ogni tipo di narrazione, anche quella che lambisce questioni attuali e scomode che hanno per protagoniste le terre marchigiane citate nel libro. Si va dai borghi montani che si spengono, sopraffatti dal richiamo incantatore di una superstrada che getta tutto in mare, dalle problematiche post-sismiche, che hanno lasciato ferite non ancora rimarginate, allo spaventoso tentativo di riqualificare un territorio martoriato dal sisma con scelte industriali di dubbio valore.
L’importante, però, è non guastare l’incanto. Calarsi nel presente, sì, ma senza ancorarsi ad esso per lasciare lo sguardo puro e in grado di spaziare nel tempo, cercando di afferrare anche l’invisibile, o quello che non è segnato su nessuna mappa.
E dunque la domanda «Viaggerai con me? Amerai, soffrirai, spererai come io voglio?». Perché ogni storia sia viatico che conduca l’essere umano da un luogo all’altro, da un se stesso a un altro sé, diverso e allo stesso tempo uguale.
Nome non ha chiede al suo lettore di essere per lui un ponte, un passaggio che possa condurlo altrove. Quale sia l’altrove è il lettore stesso a deciderlo.
E seppure alla fine quanto ascoltato e letto assume via via i contorni indefiniti di un sogno, val la pena congedarsi dalla propria lettura ricordandone la dolcezza assaporata, proprio come fa Dante, nel XXXIII canto del Paradiso: «Qual è colüi che sognando vede, / che dopo ’l sogno la passione impressa /rimane, e l’altro a la mente non riede, / cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visïone, e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa. / Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla».
(Loredana Lipperini e Elisa Seitzinger, Nome non ha, Hacca, 2021, 104 pp., euro 20, articolo di Giulia Eusebi)