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Musica

Il capolavoro imperfetto dei Bloc Party, A Weekend In The City

Il secondo album della band inglese, 15 anni dopo

di Luigi Ippoliti / 25 gennaio

Con tutti i limiti del caso, è impossibile dire che i Bloc Party abbiano tentato di riprodurre all’infinito Silent Alarm. Il loro esordio non avrà avuto attorno a sé  lo stesso clamore avuto in quegli anni da Strokes e Franz Ferdinand, ma era chiaro che avessero scritto uno degli album fondamentali dell’indie rock. “Helicopter”, “Like Eating Glass” e soprattutto “Banquet“, sono al cento per cento un momento fondamentale dei primi anni 2000.

Forse sarebbe stato più facile percorrere la stessa strada, magari con qualche accorgimento, rimanendo sugli stessi binari e rimanendo sempre gli stessi. Pigrizia creativa come autoconservazione. I Franz Ferdinand e gli Strokes hanno fatto bene o male questo e il declino è evidente da tempo: terminata quell’epoca, si sono ritrovati in un mondo dove non erano più riconosciuti e dove non si riconoscevano più.

Non che le cose per gli inglesi siano andate molto meglio: i Bloc Party  si sono mossi in un’ altra direzione, sarebbe meglio dire in più direzioni, non riuscendo però a chiudere il cerchio. Figli anche di una confusione derivata dalla messa in proprio del leader Kere Okereke (The Boxer, no?), Four e Hyms sono stati sinonimo di autodistruzione: se da un punto puramente teorico il tutto avrebbe potuto avere un suo significato, il primo era un ritorno completamente fuori fuoco alle chitarrone (dopo il più elegante Intimacy) che si sono impantanate in un innocuo hardrock, mentre Hyms andava a occupare il punto più basso della loro produzione: elettro-dance-pop vuoto e insignificante.

È prima, con il secondo album, che possiamo osservare il punto di svolta del quartetto inglese: pur riconoscendo la potenza germinale di Silent Alarm, è con A Weekend in the City che i Bloc Party sono riusciti a raggiungere, quantomeno sulla carta, il picco della loro poetica e maturità.

Sono passati solo due anni dal loro esordio, ma già dalla prima traccia si capisce che le cose sono cambiate. Intendiamoci: non è una stravolgimento epocale, i Bloc Party rimangono i Bloc Party,  ma quella spinta istintiva di Silent Alarm ora viene bilanciata da una lettura artistica più sofisticata, meno grezza e post-adolescenziale.

Song For Clay (Disappear Here)” ha un respiro diverso, che non è possibile incasellare in maniera sbrigativa in quello dell’indie. Lo sguardo non è verso New York, ma verso l’Inghilterra, precisamente Oxford (ma bastava anche solo vedere Russell Lissack che prima o poi si sarebbe andati a finire da quelle parti): i Radiohead quattro anni prima scrivevano Hail To The Thief e, in A Weekend In The City, la traccia iniziale funziona da detonatore come per la band di Thom Yorke fece “2+2=5“.

Quello che esce fuori è coerente in tutto e per tutto con il suo incipit: da “Hunting For Witches” a “On“, da “Where Is Home?” a “The Prayer” , il suono è compatto, i pezzi cambiano forma in continuazione, susseguendosi con armonia e eleganza. L’indie rock prova a fare spazio a un alt-rock sofisticato, ci sono incursioni elettroniche, c’è la voce di Okereke che dà la sensazione di accelerare e decelerare con maggiore padronanza  rispetto al passato.

Lasciando in sospeso il pezzo più radiofonico e meno interessante di tutto l’album, “I Still Remember” (che sembra uscito da un universo parallelo in cui i Bloc Party tentano di riprodurre all’infinito Silent Alarm, peggiorando), “Uniform” e “Kreuzberg” sono delle perle che avrebbero meritato molto più spazio nel discorso sugli anni ’00, indice della sensibilità compositiva di Okereke, dell’intelligenza alla batteria di Matto Tong, dalle chitarre riconoscibili di Lissack fino al basso ragionato di Gordon Moakes.

C’è un però: ascolto dopo ascolto, anno dopo anno, ancora oggi,  quest’album lascia delle sensazioni di qualcosa che sarebbe potuto essere, ma per qualche motivo non è stato. A Weekend in he City sarebbe potuto essere molto di più. È vero: è un lavoro che funziona, anzi, funziona tremendamente: è bello.  Ma c’è un’ambiguità di fondo, un punto iniziale che suona quasi come una strana condanna: non ci si poteva esporre più di così.

Possiamo tirare delle coordinate che pongono i Bloc Party al centro di un triangolo piuttosto impegnativo: Radiohead, appunto,  Sigur Ros (“Srxt” esiste perché esiste la band islandese: il finale è uno dei punti più alti dell’album) e National (ci si ritrova una disperazione esistenziale alla Alligator).

Non è una bestemmia: lo è solo se li poniamo su quel livello. I Bloc Party non possono sedersi allo stesso tavolo di quei tre. A Weekend in the City non ha  il coraggio di abbandonarsi a qualcosa di completamente nuovo, trascinandosi appresso qualcosa di ineluttabile e irrimediabile. Le premesse c’erano, la tensione generata da Silent Alarm era palese, ma allo stesso tempo castrante.

È un lavoro che si trova su per giù a metà tra qualcosa di genere (non essendo però allo stesso tempo chiaro e deciso come per esempio Room on Fire, ma neanche come il pluricitato Silent Alarm) e qualcosa di profondamente alternativo, che potesse andare a scardinare le cose, a rivoluzionare certi stilemi, a incidere realmente: per come suona aveva le possibilità di ambire a certe categorie  (Arcade Fire, Funeral), affondando le radici in qualcosa di ben preciso, ma gli è mancata la forza e la lungimiranza per poterlo fare.

A Weekend In The City ne esce fuori come un capolavoro mancato dei Bloc Party, un grande album incompiuto: un capolavoro imperfetto.