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Libri

Solitudini tolstoiane

“Quel maledetto Vronskij” di Claudio Piersanti

di Mario De Santis / 9 maggio

Claudio Piersanti è uno dei nostri più solidi scrittori, come ha dimostrato con i suoi libri dagli anni Ottanta in poi. Il suo nuovo romanzo, Quel maledetto Vronskij (Rizzoli, 2021), è una conferma della sua capacità di narrare con raffinata tessitura psicologica.

La storia è quella di Giovanni, tipografo di mezza età che dopo il licenziamento dalla grande azienda editoriale milanese ha aperto una piccola tipografia in centro. Ama stampare i libri, la fattura elegante, la perfezione delle bozze, ma non ne legge per sé (se non due volte nella vita: I promessi Sposi e Don Chisciotte). È un uomo gentile, forse troppo, dice la voce narrante. È sposato e sempre innamorato di Giulia, con cui ha una figlia che vive all’estero. Giulia all’improvviso si ammala gravemente e nonostante le cure qualcosa è minato per sempre. Infatti un giorno scompare, lasciando Giovanni disorientato. Tra rispetto e incapacità, lui non la cerca, aspetta. Il tempo passa ma la moglie non torna e allora, ricordando le loro sere, in cui Giulia leggeva sempre mentre lui dormiva davanti alla tv, sceglie un libro della moglie, a caso, cercando la chiave di quell’allontanamento.

La scelta cade su Anna Karenina. Giovanni cerca di entrare nel libro a suo modo, dal lato materico: lo copia per comporlo in un’edizione a stampa di lusso, in copia unica. Ma il libro, per certi aspetti come il “male” in Giulia, lo invade: seguendo i tradimenti di Anna Karenina, Giovanni si convince che Giulia sia scappata con un simil-Vronskij fascinoso. Giovanni legge alla lettera il libro, da tipografo ne idolatra il contenuto (proprio come Chisciotte, e forse anche Bovary). Odia Vronskij e disprezza Anna («è pur sempre la storia di un matta che si butta sotto un treno», pensa a un certo punto) e un po’ anche Giulia, ora. Accetta la sua nuova condizione solitaria e guardando in tv la caduta delle Torri gemelle (il romanzo è retrodatato, partendo dal principio del nuovo secolo) pensa semplicemente: «È iniziata la parte della Storia che non condivido con Giulia».

Copiare diventa una mania, anche se non proprio come il Pierre Menard di Borges, e questo specchio con il romanzo preso alla lettera non si cancellerà. Piersanti tuttavia non fa metaletteratura, fa letteratura (sebbene avverta della sua insufficienza e dei suoi inganni). Sarà però la vita a sorprenderlo, perché Giulia torna, rivelando l’esatto legame della sua fuga proprio con quel libro. Così questa storia di due cuori semplici riprende nell’accudimento uno dell’altro, ma qualcosa oramai è irreversibile. Per Giovanni è il pensiero di Vronskij, la consapevolezza che il male erode; Giulia porta con sé l’ombra della morte che la chiude, nonostante non sembri. Come I promessi sposi, anche quello di Piersanti è un “romanzo senza idillio”. Il tempo che resta dopo il falso finale (Giulia che torna a casa) mostra le crepe: lui non si era accorto del suo disagio e lei non ha sentito il bisogno di coinvolgerlo nei suoi pensieri.

Piersanti tiene la sua scrittura attentissima alle minime variazioni, mostrando la forma di un’inquietudine dentro la più mite delle vite. Vronskij è sempre tra loro come elemento perturbante, o della mancanza, dell’inadeguatezza (è ciò che fa fare scatti d’ira al mansueto Giovanni e ciò che spinge Giulia a omettere, a non dire tutto al marito di sé stessa, come ancora una volta una fuga al lago, dopo il ritorno). Giovanni non ha raccontato certi sogni in cui è presente la morte, i suoi pensieri restano «chiusi in cassaforte» perché «devono proteggere l’altra parte di sé», più che proteggere l’altro.

Una storia in apparenza così luminosa porta Piersanti a creare sulla superficie degli eventi venature, vortici, mulinelli, la prosa calibrata lascia trasparire il tremendo senza assertività. L’adozione di una sintassi e una struttura tradizionale servono ad arginare il patetico, il sentimentalismo, con uso di ellissi di distacco nella terza persona intrisa però di discorso indiretto.

Sono due solitudini in bilico su un precipizio, Giovanni e Giulia, che rivelano come dietro il più grande amore ci siano due monadi che al fondo restano tali. Quelle due monadi tengono il segreto più profondo in comune e pure ognuno per sé. Vivono tutto in comune, specie in questo secondo tempo che resta, ma la morte è un segreto che resta irriducibilmente singolare, dove «ciascuno sta solo sul cuor della terra».

La morte non arriva dalla fine ma ti raggiunge dal passato, dall’infanzia, dove sei stato felice, caldo e concepito, nel tutto-uno dell’amore materno, e prima ancora. La morte non è il buio oltre noi, ma un buio che ritorna dal passato come un’indistinta assenza in cui siamo generati. È questo ciò che entra in gioco con gli sbocchi di gelosia di Giovanni che nessuno vede, le sue furie per quel maledetto Vronskij che vorrebbe uccidere: l’abbandono ci rimette di fronte quel buio dove noi non-siamo. La gelosia del mite Giovanni è parte dei codici patriarcali dell’amore romantico, esprime un possesso ma insieme anche la paura dell’essere abbandonati.

Oltre l’Alien del film che Giulia suggerisce a Giovanni («mi sento così, con un mostro dentro»), c’è la morte. È quel buio dei due pozzi paralleli ciò che bisogna affrontare. Piersanti dà allora alla coppia un solo spiraglio di empatia vera: di notte, parlando «nel buio assoluto della camera» e simbolicamente tornando a quell’indistinto che cancella le loro individualità, replica la fusione della scena primaria dell’infanzia da cui nasce quella forma di abbandono irreversibile. L’unica possibile forma d’amore che non sia possesso è il conforto di una condivisione della paura della morte. La funzione-Vronskij nel romanzo è quella di rilevare questa fragilità del singolo e paradossalmente spingere i due a guardarla in faccia insieme, «lasciandosi andare alla paura abbracciati come bambini».

È in quella condivisione che i due si fanno specie e natura, come le piante che accudiscono. Il mondo vegetale che vive oltre le singole piante: qui è il “per sempre”, non nell’amore di coppia, quello romantico di cui è vittima Karenina. Al massimo in mutuo soccorso, riconnessi più alla vita creaturale (insieme al loro cane e alle piante) che individuale. Lasciar andare la nuda vita in sé, oltre le singolarità degli egoismi, che è ciò che rende le famiglie (e le coppie) infelici. Giulia e Giovanni, esaurita la loro coppia, nel loro secondo tempo impastano con la paura della morte una solidarietà di creature. Cercando una diversa felicità fragile e senza desideri, nel tenersi vicini e di fronte all’estremo del male.

Non perché “Vronskij” esaurirà così la sua energia distruttiva, ma perché è l’unica cosa da fare: pensarsi in una continuità, entro un campo delle forme viventi, o addirittura «rinascere pietra», come dice Giovanni. La memoria diventa parte di quel campo, gli eventi accaduti, come fiori freschi che nascono da terra concimata con ciò che resta dei fiori morti. In questa naturalezza del morire, sta tutto il segreto del vivere.

 

(Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, Rizzoli, 2021, 240 pp., euro 18, articolo di Mario De Santis)