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Libri

Raccontare la crisi climatica: la climate fiction

I libri e il dibattito in corso

di Valeria Zangaro / 25 maggio

È il 2007 quando il giornalista Dan Bloom, per indicare un sottogenere della fantascienza incentrato sui cambiamenti climatici, parla per la prima volta di «cli-fi», termine ripreso cinque anni più tardi dalla scrittrice canadese Margaret Atwood in un tweet poi condiviso da migliaia di follower. Da allora è passato un decennio e sono molti i romanzi – e non solo – che hanno messo la crisi climatica al centro della narrazione, dando vigore a quel filone narrativo che ha preso il nome di climate fiction, o narrativa ambientale, a metà tra la fantascienza e il distopico, pur distinguendosi da questi due generi per diversi aspetti.

Innanzitutto le vicende narrate dai romanzi di climate fiction sono ambientate in un presente prossimo e possibile, e non in un futuro lontano, che non ci riguarda. Strettamente collegato alla prossimità temporale è il fatto che le vicende raccontate siano scientificamente possibili, e in questo senso i romanzi cli-fi appartengono anche a quella che Atwood ha definito «speculative fiction»: le vicende narrate nei romanzi di questo genere non solo sono possibili, ma potrebbero stare già accadendo. Di conseguenza un altro elemento che differenzia la climate fiction dalla fantascienza e dal distopico è la verosimiglianza, la necessità che i fenomeni narrati siano supportati da dati e ricerche scientifiche valide e approfondite.

Lo sa bene Bruno Arpaia che, per costruire l’immaginario di Qualcosa, là fuori (Guanda, 2016), il primo romanzo cli-fi italiano, ha confrontato i dati scientifici, tenendo conto del parere di diversi scienziati, da James Hansen della Nasa fino ai rapporti dell’IPCC. L’aspetto più affascinante di Qualcosa, là fuori è proprio il realismo speculativo di quanto narrato, ottenuto grazie a una rigorosa ricerca delle fonti e uno studio della letteratura scientifica sull’argomento. Il risultato è un romanzo che, sebbene ambientato nel 2100, è drammaticamente simile al nostro presente, in cui una moltitudine di profughi è in viaggio dall’Italia verso la Scandinavia, ultimo luogo incontaminato della Terra. Non è raro, perciò, che romanzi cli-fi finiscano per raccontare catastrofi che sono già in corso. Così è accaduto con Odds Against Tomorrow di Nathaniel Rich, pubblicato nel 2013 negli Stati Uniti, in cui un matematico trova lavoro in una società finanziaria che specula alimentando la paura di un cataclisma incombente. Rich stava lavorando al suo romanzo e alla descrizione di una New York inabissata dall’acqua proprio quando la parte orientale degli Stati Uniti veniva colpita dal ciclone Sandy.

Visto il bisogno di indagare il futuro prossimo – più simile al nostro presente, come si è visto –, è d’obbligo interfacciarsi anche con lettori giovani: il tentativo è sensibilizzare le generazioni che domani quel mondo lo vivranno certamente. E allora non è raro che la cli-fi si avvalga del genere young adult. L’autore francese Michel Bussi ne è un esempio. Nella sua saga distopica N.E.O. (pubblicata da edizioni e/o), narra di una Parigi in cui il disastro ambientale si è già consumato e in cui gli unici a essere ancora vivi sono i bambini. La narrazione assume i connotati di una parabola, similmente a quanto accade nel romanzo finalista al National Book Award 2020 di Lydia Millet I figli del diluvio (NN Editore, 2021) che, pur rifacendosi agli scenari di Il signore delle mosche di Golding e alle atmosfere alla Cormac McCarthy, si avvale di una cornice apocalittica di impronta biblica. L’impressione è che per spiegare l’imminenza della catastrofe non basti più il giudizio critico ma ci sia bisogno di lambire il religioso, in un ambito in cui la parabola ha la funzione di spiegare e annunciare in modo semplice la fine dei tempi, la fine dell’essere umano.

Se la cli-fi tende a immaginare scenari distopici e storie di fallimento, disastro e collasso della società, c’è un altro genere che però immagina esiti positivi e utopistici: è la solarpunk fiction, per la quale anche se le storie di fallimento possono avere un effetto catartico impediscono comunque la possibilità di pensare e immaginare futuri alternativi. Un romanzo su tutti: New York 2140 (Fanucci, 2017) di Kim Stanley Robinson, ambientato in una New York sommersa dall’acqua. Elemento, quello dell’acqua, al centro anche di romanzi come Riaffiorano le terre inabissate (Atlantide, 2021) di M. John Harrison e Il muro (Sellerio, 2020) di John Lanchester. In quest’ultimo ci sono tutti gli elementi del nostro presente: il cambiamento climatico e la Brexit come nel romanzo di Harrison, ma anche Donald Trump, gli immigrati e l’incapacità decisionale della politica.

L’ibridismo dei generi è l’altro tratto comune. In Il sussurro del mondo (La nave di Teseo, 2019) Richard Powers unisce divulgazione scientifica a elementi soprannaturali per raccontare la distruzione della natura operata dagli esseri umani. Il romanzo, oltre ad aver vinto il premio Pulitzer 2019, è stato osannato da più parti; in Italia Francesco Longo su Rivista Studio lo ha definito «la Bibbia della eco-fiction» mentre per il New York Times è «una gigantesca fiaba di genuine verità». Ma non si tratta soltanto di una storia sul rapporto con la natura: l’aspetto più interessante di questo romanzo riguarda l’incapacità dell’uomo ad aprirsi alla conoscenza di nuove forme di vita; ha luogo conseguentemente il collasso di una visione antropocentrica della narrazione: i veri protagonisti qui sono gli alberi, come lo sono anche nel romanzo di Michael Christie, I Greenwood (Marsilio, 2021), ambientato in un futuro prossimo in cui l’unico luogo dove è ancora possibile respirare come un tempo è a Greenwood Island.

A narrare un cambio di prospettiva, e di conseguenza la fine di quell’idea di “umanità” così come la conoscevamo, ci pensa anche il romanzo di Diane Cook dal titolo Un mondo quasi perfetto (SEM, 2022). Una figlia che sta morendo di inquinamento e sua madre lasciano la città per raggiungere lo Stato delle Terre Vergini, l’ultimo lembo di terra sopravvissuto ai cambiamenti climatici. Agnes e sua figlia Bea si sottopongono a un esperimento per verificare se l’uomo è in grado di convivere con la natura senza distruggerla; il risultato è un ritorno allo stato brado in cui i bisogni dell’essere umano sono ridotti alla ricerca di cibo e di un luogo dove ripararsi. Ma è davvero possibile una vita futura basata su un modo nuovo di pensare, su una sensibilità nuova? Se lo chiede pure la poetessa statunitense Kassandra Montag nel suo romanzo d’esordio Terre sommerse (HarperCollins Italia, 2020), in cui i personaggi fanno i conti con un mondo sommerso dall’acqua e sono costretti a superare lo smarrimento e a impegnarsi per costruire una nuova realtà.

L’ibridismo dei generi è tale da toccare anche la saggistica. Va menzionato di nuovo Nathaniel Rich e un altro suo libro, questa volta un saggio dal titolo Perdere la Terra (Mondadori, 2019), in cui si racconta l’incapacità delle potenze mondiali, fra il 1979 e il 1989, di creare un piano in collaborazione con scienziati e attivisti volto alla salvaguardia del pianeta. Quello di Rich non è un saggio secondo gli stilemi tradizionali, ma (come spiega l’autore in un articolo di La Lettura) «“una non-fiction narrativa sul cambiamento climatico: ricostruisco le storie intime di chi allora non solo cercò di trovare soluzioni politiche, ma si interrogò sulle conseguenze per le proprie famiglie e il futuro”». Ibrido è anche il saggio di Jonathan Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 2019), che «all’ambiente non dedica un romanzo. Ma neppure un saggio tout court. Piuttosto “un’analisi con parti autobiografiche”».

Anche Amitav Ghosh si è speso molto per la causa ambientalista sia nei suoi numerosi interventi pubblici sia con le sue opere, a partire dal pamphlet La grande cecità (Neri Pozza, 2017), definito da Goffredo Fofi «una analisi rigorosa e convincente, e per forza di cose pessimista nonostante le caute dichiarazioni di speranza»: pure qui un saggio ibrido in cui lo scrittore indiano non attinge dal reale, ma intreccia mito, folklore e soprannaturale per narrare un mondo in cambiamento. Lo stesso fa con il suo ultimo lavoro, Jungle nama (Neri Pozza, 2021), una graphic novel illustrata dall’artista pakistano-americano Salman Toor. Qui Ghosh ricostruisce la leggenda di Bon Bibi, una figura sacra adorata sia dagli indù sia dai musulmani delle Sundarbans. Una storia che ha lo scopo di ricordare l’importanza del rispetto per la natura. Jungle nama, pur sembrando destinato ai bambini, è in realtà un libro per adulti molto serio. In un’intervista recente a la Repubblica Ghosh ha sostenuto che «una delle cose più bizzarre di questa cultura è che scrivere di tempeste e disastri naturali, per quanto devastanti, non è considerato letteratura seria. Diventa subito fantasy o fantascienza. È una trappola in cui la modernità si è cacciata. Perché è ovvio che gli eventi climatici che ci circondano sono fatalmente seri. […] Eppure queste tematiche faticano a trovare un inserimento nei testi che la cultura contemporanea considera seri. Un paradosso incredibile».

Secondo Ghosh il problema è proprio questo: con l’avvento della modernità il discorso attorno alla natura è stato progressivamente relegato al territorio della scienza, lasciando la cultura fuori dal dibattito. Si è creata perciò una divisione tra scrittori e questioni scientifiche. A un certo punto la letteratura ha smesso, secondo Ghosh, di occuparsi di questioni scientifiche.

E allora che ruolo ha la letteratura in tutto questo, deve “servire a qualcosa” o va semplicemente confinata nell’isola dell’intrattenimento? Secondo Carla Benedetti, autrice di La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi, 2021), la letteratura è in grado di arrivare lì dove politica, economia e diritto stanno fallendo, purché gli autori non si riducano a fare del cambiamento climatico una questione di contenuto o di tema. E invece spesso è proprio così che la letteratura affronta il problema dell’emergenza ambientale: «Ci si aspetta o storie di disastri ambientali e conseguenti collassi sociali, quali quelle a cui ci ha abituato la fantascienza apocalittica, post apocalittica o collassologica; oppure, al contrario, come auspicano alcuni psicologi del cambiamento climatico, “storie ambientali positive”, che raccontino anche solo di piccoli risultati raggiunti con gioia e determinazione».

È necessario invece che la parola non sia assertiva o profetica – come è nella letteratura apocalittica –, ma che sia in grado di suscitare empatia verso chi verrà e abiterà il pianeta dopo di noi; che ci renda «acrobati del tempo», dice Benedetti citando l’espressione del filosofo tedesco Günther Anders, e perché ciò accada è necessario guardare anche alla letteratura del passato. I romanzi cli-fi hanno sì il grande merito di «far crescere la consapevolezza dell’emergenza ambientale, ma […] fanno leva su un solo sentimento, lo spavento per la catastrofe che ci aspetta – che di per sé può portare all’azione ma anche alla paralisi. Poiché lo scoglio sta proprio qui: non è la consapevolezza della possibile catastrofe che ci manca, ma la forza di uscire dalla paralisi che l’attuale stato delle cose genera».

A questo stato di paralisi il filosofo Timothy Morton, esponente del realismo speculativo, ha dato un nome ben preciso: iperoggetto. Nel suo saggio Iperoggetti (Nero, 2018), sostiene che «l’iperoggetto per eccellenza è proprio il riscaldamento globale, la cui caratteristica principale è quella di esistere su dimensioni spazio-temporali troppo grandi perché possa essere visto o percepito in maniera diretta. Ad esempio un’ondata di caldo nelle Filippine può avere come conseguenza, per le complesse ragioni che fanno del clima un sistema grande quanto la Terra, un’estate particolarmente fredda in Francia». In questo contesto ci si può solo augurare che un genere come la climate fiction contribuisca a “ridurre” le dimensioni di questo iperoggetto che è il riscaldamento globale, e a far sì che si prenda contezza della realtà dell’apocalisse in un modo più efficace di quanto abbia fatto la fantascienza fino a oggi e che, parafrasando Alex Langer, la conversione ecologica sia presto socialmente desiderabile.

 

Fonte immagine: Federico Bottos su Unsplash