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Animali bizzarri alla resa dei conti

“Arriva l’oritteropo” di Jessica Anthony

di Cristina Cassese / 23 novembre

Il mondo, si sa, è pieno di animali curiosi: armadilli, ornitorinchi, narvali, talpe dal muso stellato, solo per citarne alcuni. Tali mirabolanti creature nutrono da sempre l’immaginario collettivo e letterario travalicando generi e tradizioni. Per loro c’è spazio (quasi) dappertutto: dal mito al romanzo fantasy, dal bestiario al fumetto, questi esseri bizzarri compaiono trasfigurati in una marea di storie, trascendendo all’occorrenza la realtà da cui pure, in qualche misura, provengono. L’oritteropo letterario di Jessica Anthony (autrice di Arriva l’oritteropo , Sur 2022), al contrario, non ha nulla di immaginario: la sua concretezza è più che palese benché priva di vita o, meglio, impagliata. Il che, tuttavia, non sottrae nulla alla potenza evocativa e straniante dovuta al suo aspetto estroso.

Per chi se lo stesse chiedendo, l’oritteropo è una sorta di maiale dal muso lungo (simile a quello del formichiere) dotato di un paio di orecchie affusolate che ricordano quelle dei conigli e di una coda identica a quella dei canguri. Mammifero africano antichissimo, vive perlopiù di notte cacciando formiche e scavando tane lunghe e labirintiche dove si rifugia nelle ore diurne. Vederlo alla luce del sole è praticamente impossibile, tant’è che in molte culture africane è associato alla stregoneria: il popolo Hausa, per esempio, ritiene che gli amuleti realizzati con i suoi organi donino poteri straordinari, a cominciare dall’invisibilità.

Il romanzo di Anthony si apre con un vertiginoso sommario incentrato sull’evoluzione del misterioso animale che, come suggerisce il titolo, costituisce da subito il centro propulsore della narrazione. L’intreccio si dipana su due trame parallele: la prima è ambientata nel presente e ha per protagonista Alex Wilson, aitante deputato repubblicano con una fissazione maniacale per Ronald Reagan; la seconda, invece, racconta la storia di Titus Downing, eccellente tassidermista dell’Inghilterra vittoriana dal carattere solitario e introverso.

Lontani nel tempo e nello spazio, i due personaggi hanno tuttavia almeno tre cose in comune: sono entrambi segretamente omosessuali, ricevono in regalo la strana bestiola dai rispettivi amanti e, in conseguenza di ciò, le loro vite tracollano. Anzi, a dirla tutta, inizialmente rasentano il grottesco, in seguito inciampano nella dimensione del surreale per poi schiantarsi, infine, in due epiloghi distinti e paralleli.

L’autrice intreccia le vicende dei due personaggi attraverso il corpo materiale dell’oritteropo che si costituisce ben presto per entrambi come lo specchio in cui riflettere i segreti più intimi, le passioni indicibili, i desideri nascosti. E se per il tassidermista ottocentesco l’animale diventa il macabro strumento attraverso cui esprimere l’intensità del suo amore proibito, per lo spregiudicato politico americano è invece l’incarnazione di un presagio sinistro, la materializzazione di una disfatta esistenziale incombente da cui non c’è modo di fuggire.

Repressi, entrambi cercano di indossare la maschera dell’oppressore innescando così una reazione a catena dagli effetti tragicomici. La paura di perdere la propria credibilità li attanaglia: Downing in quanto scienziato e Wilson in quanto politico non sarebbero più ciò che sono se emergesse la verità del loro orientamento sessuale; è proprio questa paura, che diventa via via sempre più ingestibile, a trascinarli in un vortice di equivoci e di paradossi.

La scrittrice non concede a nessuno dei due il tempo di riflettere: non c’è modo di elaborare le proprie contraddizioni né tantomeno di prendere le misure dalla frattura tra dentro e fuori esistente nella vita di entrambi: l’arrivo dell’oritteropo segna un punto di non ritorno, una resa dei conti che non può più essere procrastinata.

Al tempo stesso, però, c’è un elemento stilistico che salta subito all’occhio e che sottolinea una profonda differenza tra Downing e Wilson. Mentre la storia del primo è raccontata nella forma classica della narrazione onnisciente, per quella del politico contemporaneo Jessica Anthony sceglie la narrazione in seconda persona, ottenendo un risultato ambiguo e intrigante: se al principio, infatti, la sensazione è quella di entrare noi stessi nella mente del personaggio, proseguendo, pagina dopo pagina, si finisce con il chiedersi quanto viceversa sia il personaggio a essere entrato nella nostra mente.

Arriva l’oritteropo è una commedia nera che assomiglia molto a una pièce teatrale: le descrizioni dettagliatissime, i dialoghi serrati, il ritmo accelerato della scrittura, il gioco di immedesimazione con i protagonisti conferiscono al romanzo la potenza immersiva tipica dei testi scritti per il palcoscenico.

D’altronde il tema delle apparenze pervade il romanzo: Anthony ci ricorda che in fondo tutti, ogni giorno, mettiamo in scena noi stessi e, parafrasando Erving Goffman, viviamo la dimensione sociale del quotidiano in forma di rappresentazione. A seconda del contesto, indossiamo maschere, interpretiamo ruoli, incarniamo personaggi. Da questa teatralità è impossibile sottrarsi ma è altrettanto vero che se ne può essere variabilmente consapevoli.

L’oritteropo impagliato è come il fantasma del padre di Amleto: la sua apparizione induce i protagonisti a chiedersi cosa davvero è e cosa, invece, sembra ma non è affatto; la sua stranezza li costringe alla resa dei conti ricordando – tanto a loro quanto a noi – che l’evoluzione non è un processo di miglioramento infinito ma piuttosto un tentativo costante, e talvolta assai maldestro, di adattamento all’ambiente.

 

(Jessica Anthony, Arriva l’oritteropo, trad. di Dario Diofebi e Martina Testa, Sur, 2022, 179 pp., euro 16,50, articolo di Cristina Cassese)