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Libri

“La fuga di Tolstoj” di Alberto Cavallari

di Matteo Chiavarone / 6 luglio

Mi sono avvicinato agli scrittori russi in ritardo. Non so perché. Mi restavano difficili i nomi, forse. Ho cercato di colmare questo gap leggendo furiosamente Tolstoj. Pagine su pagine e mi sembra di conoscere ancora pochissimo quel mondo. Allo scrittore di Anna Karenina, l’intellettuale indù Kumara un giorno scrisse “voi siete nato russo, ma appartenete al mondo intero”. Più passano gli anni e più credo che la realtà è rinchiusa in queste parole.

Ho provato ad immaginarmelo, Tolstoj. L’ho sempre pensato avanti con l’età, qualche chilo di troppo, un bastone nella mano. Pigro. Un cappotto scuro, magari nero. Intorno tanta neve. Un professore all’università, mi parlò della sua partenza, del suo “congedo”, della sua morte. Del clamore. Io continuavo ad immaginarmelo come un omaccione sul divano, magari con un foglio in mano e gli occhiali, piccoli, sugli occhi. Non riuscivo a “vederlo” questo viaggio.

Poi ho avuto tra le mani La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari, non quello pubblicato anni fa da Einaudi, ma un delizioso volumetto della casa editrice Skira. Un libricino esile, con una bella copertina rigida. Cosa assai rara, oggi. Lo sfoglio. Prima di iniziare a leggere osservo le fotografie inserite in mezzo. Fotografie in bianco e nero. Fantastiche. Eccolo, Tolstoj. Diverso da quello che mi immaginavo. Non avevo mai visto una sua immagine neanche su internet, se non quelle piccole sotto le biografie, in quarta. Poi mi perdo nel racconto e con un autore che, da sapiente giornalista qual era, sa giocare benissimo tra la forma-romanzo e la cronaca. Voglio sapere della morte. Ma l’autore no, non me ne vuole parlare. Torna indietro. Vuole ripercorrere, con viva intensità, i giorni tra la scelta dello scrittore russo di scappare via dalla propria casa e la fuga. La morte c’è ma è solo un corollario.

Sullo sfondo di questa fuga c’è la “Santa Russia”, quella raccontata dal mio professore. Quella di cui sentivo parlare, da bambino, negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Sono i paesaggi raccontati da Tolstoj. La tenuta di Jàsnaja Poljana è davanti ai miei occhi. Sento persino il freddo. Quello dell’autore russo non è solo l’abbandono di un luogo fisico ma una scelta consapevole di separare il proprio “io” da una realtà soffocante.Si sentono i cavalli, il vento, l’erba e la terra calpestate.   

I continui litigi con la moglie Sof’ja Andréevna Bers – quella, per intenderci, che ricopiò per ben sette volte il voluminoso Guerra e pace – rappresentano soltanto la scintilla di un vaso che trabocca da troppo tempo. Sof’ja, in un certo senso, cerca di mettere in piedi una struttura razionalista, di trovare le “ragioni” della realtà: si compiace degli onori ricevuti dal marito ma si preoccupa di non far concretizzare quell’ideale di povertà che rovinerebbe non solo gli equilibri ma una famiglia composta di sette figli e ben venticinque nipoti. Io però sto dalla parte di Tolstoj. Devo stare dalla sua parte. Poco importa che l’autore russo, come affermò Sklovski, vagheggia una società contadina di stampo patriarcale, che tuttavia non poteva che appartenere al passato.

Il viaggio ha un non so che di evangelico. Siamo attratti, sono attratto. Tolstoj vuole uscire da se stesso, si libera del peccato, della terra che lo circonda, del sangue che gli scorre nelle vene. E infine decide morire, o rinascere, nella stazione di Astàpovo. Come se niente fosse.