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Cinema

[Amarcord] “Il castello nel cielo” di Hayao Miyazaki

di Piera Lombardi / 15 giugno

Concentrato poetico, potente costruzione onirica travestita da cartone animato, miracolo tecnico: Il castello nel cielo di Hayao Miyazaki (1986) è tutto questo, inutile girarci attorno. Come i veri sogni è capace di risvegliare alla realtà che è essa stessa trama onirica, portatrice di messaggi fondamentali oltre l’ordinaria visione appannata, l’interpretazione dualistica dei fenomeni o, peggio, il nostro vagare, inchiodati al sonno della coscienza. In fondo, proprio come nel film del maestro giapponese, siamo tutti in viaggio nello spazio, a volte in caduta libera se non a precipizio, diretti dove non sappiamo, immersi nel mistero totale di cui ogni cosa ci parla; noi stessi involontari personaggi iperbolici di un cartone animato di cui spesso ci sfugge la sequenza principale perché si resta impigliati in un singolo episodio scambiando il particolare per il tutto. Siamo anche noi in galleggiamento su un castello che si libra nell’aria. È un castello in rovina, ma che pur sempre muove appetiti venali e provoca mortali lotte di potere. In origine era, doveva essere, un paradiso terrestre, l’Eden, dimora di una civiltà avanzata perché porta i segni di un’antica bellezza. Ma è stato a tal punto sabotato, depredato, violato da umani rozzi, da ridursi a cimitero di corpi e anime, controllato a vista da qualche robot che non risponde più a nessun ordine se non agli automatismi della tecnologia. Siamo anche noi schegge superstiti di una civiltà annientata. Il castello nel cielo è parabola sulla condizione umana ed esistenziale, profezia (altro che Maya) sul nostro oggi, e insieme monito a rintracciare la dimensione sacra che ha radici in cielo; un cielo però sgombro da religioni e superstizioni ma in cui il libero arbitrio e la possibilità di scelta determinano a ogni istante le nostre sorti. Miyazaki lo pensò e realizzò nel lontanissimo (accelerazione della storia che trasforma il passato prossimo in passato remoto) 1986, e pazienza se da noi in Italia è arrivato nelle sale cinematografiche con “appena” 26 anni di ritardo dopo avere fatto solo una veloce comparsa in versione home video. A quell’epoca, mentre la storia in Occidente viaggiava ancora in prima classe satolla di ottimismo positivistico, Hayao ci allertava sui pericoli mortali della tecnica spinta a oltranza, sugli effetti catastrofici della manipolazione umana della natura, della storia ridotta a militarismo e schiacciata dall’ingordigia economica. Cose che scontiamo, ora. Nel 1986 non era ancora l’indiscusso artefice di un genere unico, né aveva ricevuto i riconoscimenti internazionali che sappiamo (Orso d’oro, Oscar per La città incantata e Leone alla carriera a Venezia nel 2005). Certo aveva già alle spalle un repertorio fitto di cartoni mai visti prima (Heidi, Conan il ragazzo del futuro, Lupin III, Anna dai capelli rossi) e aveva appena fondato lo studio di produzione Ghibli, ormai sinonimo del suo stile che al talento fantastico e alla cura maniacale nella realizzazione associa sempre la riflessione etica e filosofica, il tessuto simbolico e i riferimenti a mitologie come ad archetipi letterari. Eppure il film del 1985 che molti di noi vedono oggi per la prima volta, magari senza neanche sapere a che anno risalga, non è consunto né invecchiato, anzi, come solo sanno fare i classici e le produzioni di genio, racconta una storia che ci riguarda secondo lo stile unico del suo inventore. Pare che ti stia proponendo un “semplice” e bonario cartone animato d’intrattenimento che inscena la lotta del bene e del male. Come sempre, secondo la sua cifra, disegnato a mano, curatissimo, un prodigio estetico fotogramma per fotogramma e poi profondamente cinematografico, capace di trasmettere il senso dello spazio e la profondità tridimensionale senza fare ricorso a effetti speciali, come se davvero una macchina da presa stesse portando lo spettatore tra le nuvole o negli abissi, in una città celeste, in volo spericolato verso l’ignoto, in alto o giù nel cuore della terra. Come se Jules Verne avesse trovato il suo “traduttore” cinematografico. E invece Miyazaki ti sta raccontando qualcosa sulla condizione umana, su ciascuno di noi, (tra cadute e desiderio di spiccare il volo), sulle dinamiche del potere, sui temi dell’ambiente e delle società umane, sulla vita universale in cui l’uomo è più che altro un guastafeste, un intruso distruttore che solo la purezza e integrità degli affetti, il lavoro e la capacità di sacrificio possono redimere. Ogni sequenza ha il marchio del maestro: la grazia, l’anelito alla libertà, la forza visionaria, l’esuberanza fantastica e cromatica, l’avventura, le trovate sono componenti delle sue produzioni che sempre ritornano e incantano. Qui la sua giovane eroina è Sheeta, una ragazzina braccata da pirati ed eserciti nazionali, tenuta prigioniera da servizi segreti che piomba dall’alto dei cieli gettandosi da un aeronave, (una sequenza quella d’avvio che vale da sola il film intero), atterrando alla lettera tra le braccia di Pazu che la salva. Altrettanto giovane, minatore, sognatore capace di adoperarsi per accorciare la distanza dai sogni, Pazu è figlio di un pilota morto per cercare l’isola volante. La ragazzina ha al collo una pietra magica che le consente di sottrarsi alla forza di gravità e volare ma è causa di tutti i problemi: vogliono impossessarsene i militari per arrivare a disporre dell’immenso potere della città celeste e i pirati per razziarne il tesoro. Sheeta infatti è proprio una figlia di Laputa, l’isola galleggiante nello spazio, un altro mondo con radici nel cielo tra gli infiniti possibili mondi che ricordano la visione di Giordano Bruno, di memoria swiftiana (Laputa è la città citata nei viaggi di Gulliver dove però abitano gli scienziati che si distaccano dalle cose materiali), novella Atlantide, persino luogo di sospensione di ogni ordine apparente e borghese abitudine, un po’ come succede nei quadri aerei di Magritte dove l’uomo sprigiona poteri dimenticati e vola. In questo film si vola molto. In aria l’identità solita si perde, avvengono trasformazioni alchemiche, esito di profondi mutamenti interiori. Tutto è all’insegna dell’incanto e della sorpresa: dagli ambienti di roccia a strapiombo della città mineraria in cui vive Pazu e dove inizia il film, alle invenzioni della città sospesa e di come i protagonisti riescano a raggiungerla attraverso sorprendenti mezzi aerei superando una barriera spazio-temporale e attraversando il vortice di una tempesta quasi dantesca. Tutto è ancor più vero del vero, personaggi compresi, vivi e intensi, specie la coppia Sheeta/Pazu (i protagonisti dei film di Miyazaki sono tutti giovani, quasi eroi alla Dickens costretti a vedersela da soli contro ostacoli che provengono sempre dal mondo adulto), unita dall’amicizia che rasenta l’amore se non fosse che la giovane età non permette altre svolte. C’è l’allegra brigata dei pirati capeggiati da una madre pirata tiranna, quasi citazione di una grande madre psicoanalitica castrante, se non che a saperla trattare si trasforma in una “mammina” come la chiamano benevolmente Sheeta e Pazu, capace di essere protettiva, persino simpatica con le sue trecce rosse e gli abiti stravaganti e over size. Il male qualche volta è anche ciò che proiettiamo negli altri costringendoli a un ruolo fisso di eterni cattivi. I simboli sono tanti, troppi. Ci sono i robot giardinieri che sono una tenera invenzione. C’è tanta poesia sparsa che anticipa capolavori come La città incantata, Il castello errante di Howl o Ponyo sulla
scogliera
. Il finale è tutt’altro che scontato: non prevede il lieto fine applicato a tutto. I poteri soprannaturali se non usati con coscienza diventano pericolosi nelle mani umane. Realizzato dopo Nausicaa della valle del vento (1984), e prima di Totoro (1988) questo film è un’avventura della mente, dell’essere, una favola intensa che ci trasporta nel vortice della tempesta dei giorni e ci inchioda alla responsabilità d’essere artefici dei propri destini. Ognuno ha in dotazione una pietra magica. Resta da vedere se preferisce non saperlo o sforzarsi di imparare a usarla.


(Il castello nel cielo, regia di Hayao Miyazaki, 1986, animazione, 124’)