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“Winesburg, Ohio” di Sherwood Anderson

di Alfonso Santagata / 6 luglio

Alcuni l’hanno definita la Spoon River dei vivi. O più semplicemente la Spoon River in prosa. E in tutto questo qualcosa di vero c’è se il lavoro di Edgar Lee Masters è stato pubblicato nel 1915 e la scrittura dei Racconti dell’Ohio avviene tra quello stesso anno e il 1916. Da una parte i fiumi Sangamon e Spoon e i villaggi di Petersburg e Lewistown, nell’Illinois. Dall’altra parte Clyde, in Ohio. Da una parte i luoghi dell’infanzia di Masters. Dall’altra il villaggio che accompagna la crescita di Anderson, tra gli otto e i diciotto anni. Microcosmi di un paio di migliaia di abitanti nell’America del Midwest.

E una parte non secondaria del fascino dei Racconti dell’Ohio – o di Winesburg, Ohio decisamente più fedele al titolo originale – risiede proprio in questo forte realismo di fondo. Le strade, gli abitanti, i negozi, la struttura della stessa Winesburg/Clyde sono i luoghi di Sherwood Anderson. Quelli vissuti dall’autore e rivissuti con il filtro di uno stile letterario immediato. Lessico mai complesso. Frasi mai troppo lunghe. Descrizioni essenziali che però non finiscono mai per diventare fredda cronaca. Anderson parla di tic, delinea modi di vestire e gesticolare, descrive sentimenti, vite, paure che caratterizzano universalmente personaggi e persone. Quella di Winesbug/Clyde è gente che «vive e respira: è bellissima», come scrive William Faulkner.

Ecco allora l’ex maestro Wing Biddlebaum accusato ingiustamente di condotta illecita verso i suoi alunni. Il dottor Percival, senza pazienti. Enoch Robinson, pubblicitario che vive e conversa con amici immaginari. Wash Williams che spiega le cause del suo odio verso le donne. Il reverendo Curtis Hartman ossessionato dalla maestra del villaggio, Kate Swift. Ed è sempre una umanità inadeguata, vecchia, che soffre se non fisicamente moralmente a causa di solitudine e abbandoni.

Fatti, storie, personaggi, gente dell’America dei villaggi. Su cui aleggia il grande cambiamento: l’industrializzazione, la meccanizzazione e la conseguente fine di quel tipo di mondo rurale. E in questo senso che deve essere letta la partenza di George Willard. La partenza verso qualcosa d’altro, qualcosa di diverso. Verso la città. Come stava accadendo a molti giovani nell’America di Theodor Roosevelt. E non a caso all’addio di George viene dedicato un interno racconto. L’ultimo: “Partenza”. George è il figlio di un albergatore e di una madre premurosa e perennemente malata. Giornalista del Winesburg Eagle. Presenza costante in tutti i racconti. Romanzo di formazione quello di Sherwood Anderson se letto sotto quest’ottica. «C’è un tempo nella vita di ogni ragazzo in cui per la prima volta egli guarda la propria esistenza trascorsa. Forse è proprio quello il momento in cui passa il confine e diventa un uomo. Il ragazzo sta camminando per strada nella sua cittadina. Sta pensando al futuro e al ruolo che giocherà nel mondo. Ambizioni e rimpianti si risvegliano in lui».

Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters ma anche Vinicio Capossela. L’album è Da solo, decima traccia. “La faccia della terra” è la traduzione in musica delle storie di Winesbug/Clyde. Poesia in note che finisce così: «E gli uomini e le donne come talpe cieche/ le costole continuano a intrecciare/ e desideri muti travolgono le loro vite/ sulla terra nudi e bisognosi / e continuano a / lasciarsi ciechi storpi e soli/ sulla nera nera terra a cercare/ sulla nera nera terra a / cercare/ sulla faccia della terra a cercare».


(Sherwood Anderson, Winesburg, Ohio, trad. di Giuseppe Trevisani, Einaudi)