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Musica

Medeski, Martin & Wood in concerto a Roma

di Valerio Torreggiani / 30 aprile

Il nucleo centrale della musica del trio Medeski, Martin & Wood, andata in scena sabato 28 aprile all’Auditorium di Roma, è rappresentato da una concezione artistica che riafferma l’assioma impressionistico di una tavolozza pittorica usata istintivamente, dalla quale emergono figure che si stagliano informi su di un flutto tempestoso e continuo di materiale sonoro. Pennellate violente di organo, basso e batteria dipingono la realtà per impressioni soggettive esaltando, quali protagonisti assoluti della serata, le emozioni ed i sentimenti suscitati dal reale, senza i quali, per dirla con Baudelaire, l’oggetto artistico sarebbe assolutamente privo di valore. Nella musica del trio americano si riflette, così, il sole che sorge sul porto di Le Havre visto da Monet, lo sguardo di Turner sull’incendio alla Camera dei Lords e il ballo al Moulin de la Galette di Renoir. Impressionismo in salsa fusion.

Musicalmente siamo di fronte ad un incrocio tra l’accademico e il visionario, tra il folle e il retorico. Il jazz dei be-boppers incontra il funk di James Brown e di Maceo Parker, mentre la fusion del Miles Davies di Bichtes Brew (Columbia, 1970), strizzando l’occhio alla psichedelia americana e al progressive rock europeo, si mescola al free-jazz di Ornette Coleman. Si ritrovano poi, sparsi qua e là con maestria, echi del Billy Cobham di Spectrum (Atlantic, 1973), di John McLaughlin e della Mahavishnu Orchestra, di Marcus Miller e di Chick Corea. Il tutto viene amalgamato e ancorato a terra saldamente, splendidamente, da un groove fangoso e sublime, sporco e ammaliante al tempo stesso, frutto di un inter-play prossimo alla perfezione. Dai diamanti non nasce niente, diceva il poeta, dal letame nascono i fior.

John Medeski è il signore indiscusso dell’Hammond B3. Arroccato dietro quella sua roccaforte fortificata si ingegna con ogni tipo di diavoleria tecnologica applicata al mondo dei tasti bianchi e neri. Suona come un tarantolato che raggiunge nuove vette lisergiche assaporando i suoni dei suoi moog, dei suoi sintetizzatori e dei suoi piani elettrici: suoni paludosi come non mai. Sembra come se Medeski incarnasse tutta una serie di stili musicali che richiamano alla mente molti grandi tastieristi del passato senza però identificarsi mai in uno in particolare. La sintesi è, in questo modo, unica e personale. Nel suo linguaggio ritroviamo importanti influenze jazz-fusion, come quella di Keith Jarrett, il quale, prima di intraprendere la via del jazz luminoso ed iridescente degli ultimi anni, era alla corte di Miles Davis durante quell’epico concerto del 20 agosto 1970 all’Isola di Wight, quando il jazz incontrò il rock di fronte ad un pubblico ammutolito ed estasiato. Forte è anche la presenza di Joe Zawinul, indimenticato tastierista dei Weather Report, e dell’Herbie Hancock elettronico degli Head Hunters. Ma vi sono anche forti richiami a tradizioni più tipicamente europee, come lo stile barocco di Keith Emerson degli Emerson, Lake & Palmer e, a tratti, addirittura le tastiere da ambizioni cosmiche del Klaus Schulze di Irrlicht (Ohr, 1972).

Dall’altra parte del palco, simmetricamente e concettualmente opposto a Medeski, troviamo Billy Martin, che rappresenta l’altro-da-sé essenziale nella definizione identitaria del trio. Egli incarna più che mai quell’ideale di musica giocata ben rappresentato dalla morfologia delle lingue anglosassoni: tamburi e piatti, ma anche giocattoli, ninnoli, maracas e fantasiosi e molteplici oggettini metallici rappresentano il bagaglio percussivo a cui questo batterista-bambino si affida. Martin sembra quasi un batterista pascoliano che esplora, colora e disegna una intricatissima e spensierata ambientazione forestale, insinuandosi nel cuore di tenebra delle più spericolate evoluzioni ritmiche. Tra i due poli della palude e della foresta si insinuano i giri di basso gattonati di Chris Wood, che si muovono tra ovattate neurosi elettriche e ipnotiche oscillazioni contrabbassistiche, nelle quali l’archetto è usato con così tanta fantasia e improprietà di linguaggio da far sobbalzare sulla sedia gli insegnanti di conservatorio presenti in sala. Dimenticatevi l’idea del trio jazz classico. Nessuna somiglianza, ad esempio, con la cristallina trasparenza esecutiva del trio Jarrett-Peacock-DeJohnette, che è forse l’incarnazione moderna più famosa della sintassi piano-batteria-contrabbasso. Leggerezza e assenza di peso da una parte, impasto di terriccio fertile dall’altra.

In questo modo questi tre sperimentatori americani, cresciuti nella New York anni novanta della sbronza funky e hip-hop, inclinano a piacere il materiale sonoro. Lo modellano, lo plasmano esibendosi in un contorsionismo musicale che rende docile la materia e onnipotente il musicista suo creatore. Si edifica così un monumento dinamico e cangiante, sempre mutevole, che dà vita ad un unicum sonoro nel quale sembrano scomparire le classiche divisioni tra momenti solistici e ritmica. Risultano estremamente sfumate anche le differenze tra i diversi momenti strutturali dei brani, tanto che spesso risulta difficile riconoscere persino il tema principale dei pezzi, che si confonde e diventa tutt’uno con l’improvvisazione, dilatando l’esperienza estetica. La musica si fa quindi visiva, ipnotica. Perdendo quel barlume di orizzontalità che la lega al tempo essa sfuma indistintamente in continue e ripetute discese e salite verticali. Queste ripidità umorali, rompendo continuamente un equilibrio che fingevano di aver raggiunto in precedenza, ricordano molto da vicino le tecniche compositive di uno dei più grandi compositori jazz della storia: quel genio pazzo e arrabbiato che risponde al nome di Charlie Mingus, punto di riferimento obbligato per tutta la musica improvvisata contemporanea, al quale i tre musicisti americani rendono un omaggio atteso e forse dovuto eseguendo una versione magmatica e molto personale di “Nostalgia in Times Square”.

Alla fine del concerto si esce decisamente frastornati, quasi allucinati. Il sorriso sulle labbra e la voglia di muoversi fanno capire che il groove è stato il protagonista indiscusso della serata. L’indagine ritmica, punto fermo della proposta musicale di Medeski, Martin & Wood, viene concepita come collegamento umorale tra musica e corpo che va a creare un movimento incessante e mobile, martellante e fluido al tempo stesso. Così travolgente che ad un certo punto sembrava addirittura che tutta la struttura dell’Auditorium si muovesse a tempo, in una fantastica e surreale alleanza tra architettura e musica. Il rischio di cadere dalla sedia è stato altissimo.

Il concerto di Medeski, Martin & Wood è andata in scena sabato 28 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma.