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Cinema

[Amarcord] “Un tranquillo week end di paura” di John Boorman

di Francesco Vannutelli / 14 luglio

Quattro amici, Ed, Lewis, Bobby e Drew, decidono di discendere in canoa il fiume Cahulawassee prima che la valle tra i monti Appalachi, in cui il corso d’acqua scorre, venga sommersa per sempre da un bacino artificiale. Nel corso del fine settimana si ritroveranno vittime di violenze inimmaginate da parte degli abitanti del posto che lasceranno segni indelebili nei loro corpi e nelle loro menti.

Cʼè qualcosa di violento e atroce in Un tranquillo weekend di paura di John Boorman. Qualcosa che anche a distanza di quarantʼanni dall’uscita in sala colpisce lo spettatore e lo lascia immerso in attoniti pensieri. Non è tanto lʼaggressione che Ed e Bobby subiscono da parte di due bifolchi durante una pausa nella discesa del fiume – con la disturbante scena dello stupro ai danni di Bobby, costretto a comportarsi come un “maialetto” prima della sodomia –, e la lotta disperata che i quattro uomini si trovano a combattere per sopravvivere, quanto piuttosto la riflessione sulla possibilità della violenza umana.

Di cosa è capace un uomo sradicato dalla società e costretto a sopravvivere nella natura selvaggia? Questo è lʼinterrogativo che il film, e prima di esso il romanzo dʼispirazione di James Dickey, che ha curato anche la sceneggiatura, si pone. Il film sovverte il mito tipico della cultura statunitense della natura come rifugio per lʼuomo bisognoso di ritrovare se stesso lontano dal caos cittadino che tanta parte ha avuto anche nella storia del cinema a stelle e strisce, come nel recente Into the wild, proponendo invece lʼimmagine di una natura ostile e aggressiva, che respinge lʼuomo civilizzato anziché accoglierlo. Per Boorman e Dickey la natura è un luogo hobbesiano di guerra perenne, in cui le regole del vivere sociale vanno dimenticate per poter sopravvivere. Questa è la conclusione cui giungono i quattro protagonisti quando si trovano braccati lungo il fiume dai due inquietanti villici. E se il primo che capisce tutto questo è il muscolare Lewis di Burt Reynolds – quello che più di tutti tra i quattro riconosce sin dallʼinizio, in una serie di dialoghi con gli amici, la necessità di un ritorno allo stato naturale per prepararsi al declino inevitabile della civiltà – che senza esitare, impugna il suo arco per salvare Ed dalla minaccia dello stupro, saranno poi proprio le due vittime dirette della violenza a reagire e a prendere in mano la situazione, come se si volesse dimostrare che alla violenza non si può far altro che reagire con ulteriore violenza. Sarà infatti Ed/Jon Voight a eliminare lʼultimo aggressore e a ordire con Bobby la trama di bugie necessaria per sottrarsi al giudizio dello sceriffo locale, portando tutti alla liberazione e allʼassoluzione finale, a cui il titolo originale, Deliverance, per lʼappunto allude.

Nel film cʼè un riferimento, sotterraneo e costante, alla guerra del Vietnam che gli Stati Uniti stavano combattendo. Come i giovani militari braccati dai Viet Cong nelle paludi vietnamite, così i quattro amici si trovano lontani da casa immersi in una natura sconosciuta e inospitale con nemici invisibili che li osservano dalle rive boscose. Quando la violenza si scatena, il passaggio allʼorrore è immediato e lʼemergere del lato più ferale dellʼanima priva lʼuomo degli abituali riferimenti alla morale e alla civiltà lasciandolo al cospetto di unʼunica, assoluta, legge: lʼistinto di sopravvivenza.

Memorabile la scena iniziale del duello chitarra-banjo tra Drew e un bambino incredibilmente dotato in unʼarea di servizio, ultimo avamposto della civiltà prima della discesa nellʼinferno dellʼessere umano. Bellissima fotografia di Vilmos Zsigmond. Tre candidature ai premi Oscar 1972, tra cui Miglior Film.


(Un tranquillo week end di paura, regia di John Boorman, 1972, drammatico, 109’)