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“Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

di Alfonso Santagata / 19 luglio

In Sicilia, da sempre, c’è un grande sovrano: il sole. E quello siciliano è un caldo che ha poco a che fare con i vari Scipione, Caronte e Minosse. Il re sole dell’isola immersa nel Mediterraneo è atavico, antico come la memoria dell’uomo, eternamente presente. Ubriacante. E torna spesso nelle pagine dell’unico romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Torna per descrivere quello che i protagonisti de Il Gattopardo vedono tra Palermo e la residenza di Donnafugata. Torna per far capire il carattere dei siciliani. Torna, infine, per spiegare la millenaria storia dell’isola.

Il Gattopardo racconta un cambiamento. Storico, certo. Camicie rosse, elezioni per i primi sindaci dell’Italia unita, monarchia borbonica che sta lasciando il passo a un’altra monarchia ma dall’accento lontano e piemontese. Ed è una Storia dove per la prima volta il Sud, e la Sicilia, hanno un ruolo centrale. Non più periferia ma perno del lato eroico del Risorgimento. Un’Unità d’Italia lontana dagli intrighi e dalla diplomazia di Cavour. Un’Unità d’Italia che ha poco a che fare con Napoleone III, gli accordi di Plombieres, Magenta, Solferino, San Martino, la pace di Villafranca. Quello che investe il Regno delle Due Sicilie è l’entusiasmo disorganizzato di tanti, soprattutto giovani, che si gettano in una avventura che qualche decennio dopo diventerà un aggettivo. Alla “garibaldina” appunto. 

Ma è anche un cambiamento che coinvolge quella storia che spesso viene definita con la “s” minuscola ma che di minuscolo non ha proprio nulla. Almeno per chi la vive, o è costretto a viverla. Famiglie blasonate che si intrecciano con i nuovi ricchi. Prestigio sociale e soldi, soldi contanti, soldi veri, proprietà in continua espansione. La vicenda della famiglia Salina. La figura del Principe Fabrizio. Biondo in una terra di mori. Appassionato di matematica e astronomia in una terra di naviganti e contadini. A fare da contraltare i nuovi ricchi. Spesso poco più che cafoni ripuliti come don Calogero Sedàra.

Il Gattopardo non si ferma a questo. Contiene in sé un numero infinito di letture. Ed è soprattutto un romanzo sulla sicilianità. E in quest’ottica Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci regala alcune delle pagine più intense della letteratura italiana del Novecento. È il dialogo tra il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo e il Principe Salina. Chevallay arriva in Sicilia per proporre al Gattopardo un posto nel Senato italiano. Ruolo che sarà rifiutato. Ed ecco che si presenta l’occasione per penetrare il carattere e la storia de «l’America dell’antichità». Un popolo quello siciliano da una parte governato da un sole crudele e dall’altra da secoli di dominazione straniera e incomprensibile. Ma non per questo meno nobile. Con la conseguente sensazione di dipendere sempre da cause di forza maggiore. In un clima atmosferico che scoraggia ogni attività pratica e che favorisce invece la riflessione e la contemplazione. Risultato? «Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali». E soprattutto: «i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che si credono perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria».

Alla fine Giuseppe Tomasi di Lampedusa parla sì di un cambiamento, ma che non è avvenuto e che non avverrà mai. Non ci sono riusciti i cavalieri di re Ruggero, gli Svevi, gli Angioini, i Borboni. Non ci riuscirà Vittorio Emanuele II. Perché «questo è il paese degli accomodamenti, non c’era la furia francese». Perché come dice Tumeo durante una battuta di caccia con il Principe Salina «questo è don Calogero, l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così».  


(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli)