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“Il Vantone” di Pier Paolo Pasolini

di Luca Errichiello / 19 giugno

Pier Paolo Pasolini tradusse il Miles gloriosus di Plauto. Lo spinse forse il carattere solo in apparenza così palesemente schematico, rigido, bidimensionale, dei personaggi di Plauto. Basta far riaffiorare qualche frammento di Accattone o di Mamma Roma per rammentare il volto di Ninetto Davoli, felice di una felicità incosciente, eppure così piena, profonda e densa di significato. Personaggi che cantano, si sbracciano, scomposti assumono statuarie pose senza posa. Sono pose che fanno i personaggi, li rendono quasi vittime del loro ruolo. Il “vantone” Pirgopolinice (Arturo Cirillo) è un pupo assiso su un trono solitario, burattino nelle mani della sua vanità. Da personaggio irritante, presto Pirgopolinice si trasforma, agli occhi del pubblico, in semplice uomo, che segue con stolida rassegnazione le sue umane pulsioni. Il servo Palestrione (Luciano Saltarelli) si incorona invece restauratore dell’ordine dell’amore, solo apparentemente superiore ai pur sinceri istinti del protagonista. Oggetto del contendere è la bella Filocomasio (Michelangelo Dalisi), che è se stessa, ma anche la sua sorella/doppio. I personaggi sembrano seguire rettilinee rotaie, gli arti sembrano scattare un attimo prima che il personaggio ne decida il movimento, in una machiavellica rete di astuzie. Anche lo spazio scenico è vittima dei confini imposti da una mente che organizza, quella del regista, come quella del servo infedele nella vicenda narrata. Marionette si dibattono sul palco, come in cerca di una via d’uscita dalla macchina scenica costruita sulle loro teste. La scenografia è essenziale, eppure i movimenti seguono direttrici che non lasciano scampo al pensiero autonomo. Pirgopolinice dunque è forse solo colui che ha deciso di lasciarsi travolgere dalla sua nullità, potendola solo sfiorare, non volendola affrontare. Come il personaggio pirandelliano Stefano Gogli (dal racconto “Stefano Gogli, uno e due”), Pirgopolinice è vittima delle proiezioni altrui, la sua unica decisione, istintiva e socialmente determinata allo stesso tempo, è quella di accettare il peso dell’unidimensionalità del suo vanesio personaggio, per evitare la disgregazione che comporterebbe la coscienza di tutti i suoi sé. Per questo Pirgopolinice appare ingenuo e pietoso nella traduzione di Pier Paolo Pasolini: un testo che lascia cantare le vittime di un gioco d’autore. Palestrione invece è l’eroe ribelle, che rende possibile la vittoria dell’amore di Filocomasio e Pleusicle (Rosario Giglio) sui bassi istinti di Pirgopolinice. Palestrione vuole lasciare un segno, non si rassegna a essere uno, come Pirgopolinice, né ad annullarsi nel nessuno, per questo è l’eroe degli spettatori, il centomila. Diverse sono quindi le forme in cui ci si può calare in uno spazio scenico ma, ciò che resta ineluttabile, è la presenza di un’oscura mano che tutto avvolge. Quest’oscurità circonda le poche luci sulla scena, sembra quasi assediare i rari oggetti, con la sua simmetria sembra anch’essa dirigere gli attori sul palcoscenico. Lo spessore di questi ultimi si ritrova proprio nella loro indubbia capacità di rendere i propri personaggi tragiche vittime di una storia preordinata, ma anche detentori di quella giovialità che Pasolini riusciva a ritrovare nei sobborghi di una Roma madre, che sapeva coccolare con tenerezza la marionetta della società: il popolo.

 

Il Vantone di Pier Paolo Pasolini
Spettacolo andato in scena presso il Teatro Grande del Parco archeologico di Pausilypon il 18 giugno 2012.