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Cinema

“Killer Joe” di William Friedkin

di Nicola Altieri e Miriam Cataldi / 12 ottobre

È proprio il caso di dire «Parenti serpenti»… a quanto pare il Texas è un grande stato: per 25mila dollari trovi un poliziotto corrotto che ti fa fuori la madre, una con una polizza sulla vita che ammonta a 50mila dollari, soldi che ti servono perché devi 6mila dollari alla mafia locale che ti minaccia e prende a calci in faccia ma che tutto sommato ti lascia abbastanza tempo per combinare qualche altro bel guaio. A grandi linee, è questo quello che succede a Chris, interpretato da Emile Hirsch, ventiduenne neanche tanto sveglio a cui serve una soluzione, possibilmente definitiva, a tutti i suoi problemi.
Friedkin è ormai un settantenne con alle spalle una filmografia infarcita di capolavori, uno che potrebbe anche permettersi il pensionamento e invece tira fuori un lavoro che neanche il più scalpitante degli esordienti. Il regista de L’esorcista dipinge un affresco di famiglia texana inacidito e greve, quasi fosse una versione estesa della sit contenuta in Natural Born Killers di Oliver Stone, ma è solo un riferimento, non c’è spazio per citazionismo e rimandi nel cinema di un maestro come Friedkin. I personaggi possono apparire forse un po’ troppo calcati, sembrano uscire da un comic in alcuni frangenti, il tutto però è funzionale a una narrazione che rimanda al genere white trash e che è in realtà un adattamento del lavoro di Tracy Letts, drammaturga vincitrice nel 2008 del premio Pulitzer e del Tony Award per August: Osage Country. È soprattutto nelle battute finali che si avverte questo forte legame con il teatro, già rintracciabile nel precedente e ispiratissimo Bug, sempre derivato da uno scritto della Letts.
In quest’ultimo lavoro, spassoso e dissacrante, Friedkin riesce a costruire un microcosmo all’interno del quale tutto ci sembra plausibile, anche le contraddizioni. Per la prima volta si cimenta con il digitale e lo tratta e lo deforma attraverso una fotografia straordinaria, virata spesso sul viola e piena di luce, una luce che acceca e accende ogni viso, opera di Caleb Deschanel, lo stesso della Passione di Cristo di Mel Gibson, capace di imbastire un mondo ricco di contrapposizioni: luce naturale calda del sole per gli esterni e immagini saturate, cariche di colore, per gli interni, protagonisti indiscussi della pellicola. Una dicotomia questa che sembra far da sintesi alla psicologia dei protagonisti: attenti a mantenere le apparenze verso il mondo esterno, che li considera sempre e comunque dei freak, dei reietti, ma senza freni in quel che accade nel loro intimo. Gran merito alla selezione di un cast ottimo sulla carta e semplicemente perfetto alla prova su strada, diviso equamente tra caratteristi di spessore troppo spesso sottovalutati, Gina Gershon e Thomas Haden Church, stelle di prima grandezza qui imbruttite e inferocite, Emile Hirsch e un mirabile Matthew McConaughey, e astri nascenti in piena rampa di lancio, Juno Temple.

In una veste noir prende corpo un racconto che definire pulp è riduttivo, accadono cose destinate a diventare cult assoluti per un certo cinema, come non considerare già negli annali la scena con la coscia di pollo? Un cinema popolare, di pancia e di sangue, rotolante e inarrestabile. In America il cinema lo sanno fare sempre gli stessi, c’è poco da fare.

(KillerJoe, regia di William Friedkin, 2011, drammatico, 102’)