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“Odissè – In assenza del padre” di Gabriele Russo

di Luca Errichiello / 28 novembre

Esiste un teatro che cerca di andare oltre le regole tradizionali, invadere spazi, costringere spettatori, violentare l’immagine. Bene. Esiste poi un teatro che recita il primo teatro. In apparenza si tratta della medesima condizione, eppure c’è qualcosa di diverso. La regola trasgredita diventa ostentazione della trasgressione. La costrizione dello spettatore diviene funzionale alla sua soddisfazione. L’immagine violentata non si solleva mai dall’immagine stessa. La violenza e la lacerazione non sono altro che un modo per strizzare l’occhio al placido conformismo che formalmente vorrebbero contestare.

Questa recita della recita si nutre di concetti essenziali, eppure, se proprio volessimo porre un discrimine nel punto di passaggio dal teatro al suo doppio, forse l’aspetto più rimarchevole è la pronuncia della maledizione. L’invettiva pronunciata mette nella parola l’energia che la sua ipotetica attuazione finirà per perdere. Irrimediabilmente. La società malata in cui si vive. Il dominio della classe dirigente. La corsa verso obiettivi preconfezionati. Motivi che pervadono le vite di ciascuno. Motivi messi in catene dalla parola.

Se il teatro è allusione che sprona alla concatenazione di pensieri, è evidente che il suo ruolo sta proprio nel fornire pensieri spezzati che interroghino chi li ricomponga. La composizione dei concetti sulla scena, il loro impacchettamento in una rappresentazione che fa della violazione delle regole la propria regola, non fa che proporre un messaggio già costituito, confezionato, codificato e, in definitiva, morto. Il messaggio esplicito si esaurisce sulla scena in un intellettualistico rimando autoreferenziale. Il teatro muore nella studiata lacerazione sociale che cerca di riprodurre. È il teatro delle magniloquenti scenografie, il teatro degli abiti sapientemente lisi, il teatro dell’ostentazione di corpi che predicano sregolata violenza per incarnare la norma. Lo spettatore è stupefatto, certo. Il palco che si allunga nella platea, panche a sostituire le comode poltrone, grandi movimenti corali, registri alterni, sono parti di un’opera estetica che finge di porre il pubblico in una posizione anomala, quando invece non fa altro che compiacerlo, in un falso “alter-nativismo” che non è altro che l’altra faccia del conservatorismo. Non c’è infatti “Altro” oltre la scena. Il messaggio è chiuso, compatto, già detto, e tutte le scene, i costumi, le musiche, tendono a questo scopo.

Odissè – In assenza del padre è opera che asseconda un pubblico che attende un grazioso compiacimento da quella che dovrebbe essere la perturbante ricerca dell’alterità. È un dramma incistato, che non fa che pronunciare – e quindi disperdere, ridurre, negare – i simboli di sofferenza sociale. Telemaco è alla ricerca di sé dopo la perdita del padre. Sullo sfondo un’umanità abbrutita e soggiogata a un gruppo di potere. Si tratta tuttavia di una rappresentazione manichea dell’autorità, di cui si ripetono insipidi stereotipi: la voce tonante, il guinzaglio e così via. La pretesa di identificare il potere non fa altro che il gioco di un potere che non è, se non nella sua perversa dispersione in ogni punto del reale. Per questo motivo il potere non può essere rappresentato semanticamente, perché ogni rappresentazione ne è una pericolosa riduzione.

Intanto le singole cifre attoriali si perdono nel tentativo di inscenare una presunta coralità. Salvo rare eccezioni, non si tratta infatti di un patimento che trascenda i singoli corpi per divenire sofferenza gruppale (e quindi metaforicamente sociale), ma una recitazione che muta spesso di soggetto nell’ambito di un gruppo di voci ben distinte. Smaccatamente e arrogantemente pedagogica è poi la figura/voce fuori campo che riproduce le frasi fatte dei media. Anche in questo caso la provocazione al pubblico è puramente funzionale alla sua soddisfazione, diviene il completamento della narcisistica posizione critica della borghesia. È uno scambiarsi messaggi (di apparente critica) noti ad entrambe le parti, in un compiacimento senza sbocchi.

Questo teatro non è in nessun modo un’alternativa al “teatro classico”, anzi è la più classica delle affermazioni del potere, che può anche giungere a fingere di negarsi, tale è il suo affermarsi.

 

Odissè – In assenza del padre
di
Gabriele Russo

Andato in scena il 27 novembre 2012 presso il Teatro Bellini di Napoli.