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“ESC - Quando tutto finisce”: a tu per tu con Mauro Maraschi

di Giulia Zavagna / 10 gennaio

Con più o meno scetticismo, tutti abbiamo aspettato che arrivasse il 21 dicembre 2012. Chi con un po’ d’ansia, chi per togliersi la soddisfazione di dire «Te l’avevo detto» a qualche amico catastrofista. Al di là di ogni profezia, c’è chi la fine del mondo l’ha immaginata davvero. ESC – Quando tutto finisce (Hacca, 2012), a cura di Rossano Astremo e Mauro Maraschi, raccoglie undici personalissime versioni dell’apocalisse. Undici giovani autori italiani focalizzano un unico evento, o meglio la reazione a un evento, la fine di tutto, con una lente diversa e sollevando, più che vere e proprie catastrofi, il velo che nasconde le nostre piccole apocalissi quotidiane. Il risultato, oltre a essere un’abile rassegna della narrativa italiana contemporanea, è un mix vertiginoso e imprevedibile. Di certo, c’è che di fronte all’idea del nulla poche sono le pulsioni che restano intatte, e tutte portano all’unione: sesso, famiglia, dialogo e contatto con l’altro.

Carola Susani apre la raccolta trasportandoci in un mondo parallelo, un futuro dal sapore antico, minacciato da uno tsunami. Con Stefano Sgambati e Fabio Viola ci addentriamo nella Roma ricca e benpensante. Gabriele Dadati propone un’apocalisse inaspettata, gelida. Emilia Zazza, Federica De Paolis e Paolo Zardi scelgono, con esiti differenti, di approcciare il tema attraverso il filtro dolceamaro della famiglia. Per Vins Gallico l’apocalisse è un segreto inconfessabile; per Cinzia Bomoll una vendetta; mentre Giordano Meacci – difficile riassumere meglio che con il titolo la ricchezza del suo racconto – propone tredici improbabili ipotesi di fine. Brillante la conclusione affidata a Flavio Santi, che sdrammatizza le nostre paure in una sorta di colossale Truman Show.

Passato il 21 dicembre, dunque, non ci resta che leggere le storie di chi la fine del mondo l’ha immaginata per noi. Ne abbiamo parlato con Mauro Maraschi, uno dei due curatori del volume.

Quando è nato il progetto?

Un anno fa, quando mi sono trasferito a Roma. Conoscevo Rossano tramite il suo blog letterario, Vertigine, nel quale è riuscito a coinvolgere, tra i tanti, Moresco, Pincio, Genna, Lagioia, Mozzi e Wu Ming i, dando anche molto spazio agli emergenti. Avevo apprezzato le sue curatele, Libro sui libri (Lupo, 2010) e La letteratura non conta niente (Citofonare Interno 7, 2011) e insomma, sono andato a scovarlo al Chiccen, il locale del Pigneto nel quale ha organizzato un centinaio di presentazioni di spessore (c’è stato persino Jack Hirschman). Tra una Tennent’s e un amaro abbiamo deciso di mettere insieme le forze, lui con la sua esperienza ed io con la mia determinazione. Direi che abbiamo fatto bene.

Come mai una raccolta di racconti?

Perché amiamo la forma racconto, piuttosto bistrattata dal mercato editoriale, e perché crediamo che un buon progetto antologico possa contribuire a rendere onore a questa forma, che solo in ultimo luogo si differenzia dal romanzo per una questione di brevità: il racconto segue un’altra logica, ha uno scheletro diverso, è un’altra specie biologica. (Sull’argomento mi piacerebbe segnalare una bella indagine di Loris Righetto, qui). E poi c’era il precedente delle due curatele che ti dicevo: godibili, ironiche, intense, ma soprattutto coese. Non è scontato che un’opera collettiva abbia un’identità forte. Credo che con ESC ci siamo riusciti. Qualche instradamento, qualche vincolo, il tutto nel rispetto delle singole cifre. Ma facendo un passo indietro, devo ringraziare Rossano: io, da solo, non sarei riuscito a mettere insieme una simile squadra.

Come l’avete scelta, la squadra?

È venuta fuori piuttosto spontaneamente, cercando tra quegli autori di cui abbiamo letto tutto o quasi tutto. Perquanto ci interessino le nuove voci, infatti, nessuno dei nostri autori è esordiente. Hanno tutti alle spalle pubblicazioni con case editrici come Rizzoli, Bompiani, Feltrinelli, minimum fax e così via, ma soprattutto sono tutti caratterizzati da una forte riconoscibilità.

Quanto ha giocato a vostro favore la scelta di un tema chiacchierato come la fine del mondo? Avevate le idee chiare fin dall’inizio o avete valutato anche altre possibilità?

Un paio di altre idee c’erano, e ci sono, ma questa era prioritaria. Sapevamo che ci sarebbero stati tanti progetti affini, ma avevamo anche chiaro il processo per far sì che il nostro fosse quanto di più lontano da un instant book. E ci tengo a puntualizzare che lo è, che affronta il tema in modo mai spettacolare, che non c’è bisogno dei Maya per raccontare un evento ipotetico che ha, da sempre, affascinato scrittori e lettori.

Mi interessa molto il lavoro di editing che sta dietro un’antologia: come vi siete mossi? Sincronizzare così tante menti non dev’esser stata impresa facile: la determinazione di cui sopra non ha mai vacillato?

La parte più delicata è, a mio parere, il coordinamento degli autori, soprattutto per evitare che vengano raccontate storie simili: Sgambati e Zardi, ad esempio, si sono contesi (con cavalleria anacronistica, devo dire) un soggetto simile, prendendo poi strade molto lontane. Per quello che riguarda l’editing, si è trattato di una formalità: lavorando con autori formati e consapevoli, è stata sufficiente qualche suggestione, ma il merito è tutto loro: diciamo che ci siamo affidati al loro mestiere.

Parliamo di contenuti: la fine del mondo c’è, ma di fatto non c’è, o meglio, assume quasi una dimensione quotidiana, intima. Sgambati, nel suo racconto, la definisce «qualcosa di cui tutti gli scrittori hanno scritto ma che nessuno ha mai raccontato davvero». ESC lo fa?

Direi di sì, ed è esattamente ciò che volevamo. In diversi racconti si accenna a terremoti, eruzioni vulcaniche o altro, ma ciò avviene quasi sempre tramite i media, o per sentito dire. E anche laddove lo tsunami si vede non è comunque protagonista. Persino nel racconto di Gallico, quello più sismico, la fine del mondo è meno temibile della verità. Idem per quello di Federica De Paolis, nel quale la fine è un pretesto per scavare a fondo in un rapporto di coppia. E se la fine di Meacci è la fine di un mondo, quella di Bomoll è addirittura virtuale.

I racconti sono molto diversi gli uni dagli altri, ma come suggerisce Marcello Fois nella prefazione, sono raggruppabili per scelte prospettiche. Quali sono i rimandi interni che fanno di ESC un continuum narrativo?

Entrando nello specifico, potrei ribadire i nessi tra il racconto di Sgambati e quello di Viola (uno su tutti, il “terrazzo su Roma” come status symbol), o tra le famiglie ritratte da Zardi, Zazza e De Paolis. Ma il fil rouge che lega tutti i racconti non è la fine in sé, quanto ciò che essa comporta: la caduta della gerarchia di tutti i valori, etici, sociali e affettivi. I personaggi di ESC non devono fronteggiare la prospettiva della propria morte (che non nega, in sé, i surrogati dell’immortalità ultraterrena o intellettuale, o della discendenza sanguigna, o dell’appartenenza all’opinabile concetto di umanità), bensì l’assenza del giudizio dei posteri, una voragine tanto spaesante quanto unica reale prerogativa del libero arbitrio.

Un aggettivo per ognuna di queste undici fini?

In ordine di apparizione: involutiva (Susani); viscerale (Sgambati), ipotermica (Dadati), nevrotica (Zazza), dissacrante (Gallico), conflittuale (De Paolis), s-radical chic (Viola); amorale (Zardi); enigmistica (Meacci); anarchica (Bomoll); cosmicomica (Santi). Tanto è solo un gioco, no?

(Aa.Vv., ESC – Quando tutto finisce, a cura di Rossano Astremo e Mauro Maraschi, Hacca, 2012, pp. 224, euro 14)