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“Lavoricidi italiani” di Jonathan Arpetti e Paolo Nanni

di Chiara Gulino / 21 gennaio

Nel 2007 l’allora ministro dell’economia del secondo governo Prodi, Padoa Schioppa, aveva definito “bamboccioni” quei giovani, che sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere a casa con i genitori. Benché contestata, quella espressione è diventata un abusato luogo comune. Ciò ha dato adito ai successivi ministri di coniare altre poco lusinghiere definizioni dei giovani italiani, stavolta è il caso di dirlo, cornuti e mazziati, solo perché non avevano conseguito la laurea nei tempi previsti o perché aspiravano a un posto fisso in un mercato del lavoro che dire flessibile è un eufemismo e nel quale i giovani non hanno alcuna garanzia: “mammoni” (Brunetta), “sfigati” (Martone), “monotoni” (Monti), “choosy” (Foriero). Lavoricidi italiani, romanzo cooperativo edito da Miraggi Edizioni e nato nell’ambito di Zaratan Clan, un progetto di scrittura collettiva ideato dai maceratesi Jonathan Arpetti e Paolo Nanni, raccoglie venti storie scritte da venti autori emergenti che contribuiscono a comporre un mosaico raffigurante questa nostra società che uccide sogni e aspirazioni. Si tratta di storie intrecciate fra loro e autonome al tempo stesso dove fanno la loro comparsa personaggi protagonisti in altri racconti che si richiamano a distanza in questo romanzo corale: laureati e non, badanti, bibliotecari, aspiranti attrici e modelle, insegnanti di religione, escort e cameriere. 

La nostra Costituzione, recentemente spiegata ed esaltata da Benigni, recita all’articolo 1 che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e all’articolo 4 che “ La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Se il lavoro determina la persona, “lavoricidio” diventa quindi sinonimo di assassinio dell’identità. “Tu non sei il tuo lavoro” dice Tyler al protagonista di Fight club. Eppure di lavoro in Italia ci si ammala perché perderlo significa smarrire se stessi. Lavorocidi italiani è una radiografia sullo stato di salute dei giovani dai venti ai quarant’anni che fanno parte dell’esercito dei precari, «un esercito sempre più numeroso e sempre più incazzato». Quest’epoca senza più certezze, che frusta qualsiasi speranza di una felicità futura, ha partorito una genia di perenni adolescenti. Del resto la maturità la si conquista al termine di un lungo percorso irto di ostacoli al termine del quale si deve dare la possibilità di tagliare il traguardo e conquistarsi il meritato premio, ma se questa possibilità non viene data, crescere diventa un problema serio. Anche per Kant la maturità non dipendeva dall’età ma dalla capacità o meno di servirsi della propria intelligenza senza fare affidamento sulla guida di un altro. Quando dunque viene permesso a un giovane di assumersi le proprie responsabilità e rendersi autonomo, se molto spesso, al termine dei famosi stage, molte aziende, usufruita della forza lavoro il più delle volte senza sborsare un euro, invece che assumere sostituiscono semplicemente quell’elemento con un altro come si fa con un paio di calzini rotti che non vale la pena rammendare? Non ci sono più maestri ma sfruttatori. Oggi sarebbe quindi impensabile il dialogo che mette in scena Platone nel Sofista fra il giovane Teeteto e un altrettanto giovane Straniero proveniente da Elea sull’opportunità di seguire o meno l’insegnamento del maestro Parmenide.

Lavoricidi italiani racconta le storie di personaggi che vorrebbero fare ciò che vogliono e quando ci riescono devono scendere a compromessi e fare enormi sacrifici. Racconta di rinunce e fallimenti restituendoci un’immagine impietosa del nostro corrotto Paese: «Suvvia, siamo in Italia. Un Paese dove la parola novità è bandita dal vocabolario. Qui si cambia tutto per non cambiare niente e non occorre essere Baroni di Salina, bastano già quelli dentro le università, per capire quest’amara verità», dice un dottorando aspirante alla carriera accademica in apertura del racconto Tokyo love di Marco Apolloni (a mio avviso uno dei migliori). I personaggi di Lavoricidi italiani sono ragazzi malati di incompletezza e di illusioni. Ma tra la sicurezza del passato e l’ansia del futuro, per il presente, a ben vedere, rimane ben poco.


(Jonathan Arpetti e Paolo Nanni, Lavoricidi italiani, Miraggi Edizioni, 2012, pp. 192, euro 14,90)