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Cinema

[Amarcord] “Un borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli

di Francesco Vannutelli / 25 febbraio

Giovanni Vivaldi è un uomo semplice. Impiegato pubblico prossimo alla pensione, ha una sola, semplice, ambizione: far entrare il figlio Mario, giovane neo-diplomato in ragioneria, non particolarmente bello né brillante, nel suo stesso ministero e condividere con lui gli ultimi anni della sua vita professionale. Pur di riuscire a inserirlo in una corsia preferenziale per il concorso di ammissione, Vivaldi è pronto a sottoporsi a ogni tipo di umiliazione con i propri superiori, tra servilismo e massoneria. Proprio il giorno dell’esame, con le informazioni arrivate dai piani alti a dare sicurezza, Mario viene ucciso da una pallottola vagante esplosa da un rapinatore in fuga.
Capolavoro indiscutibile, Un borghese piccolo piccolo (1977) segna una svolta nella produzione di Mario Monicelli. Di fronte al deterioramento progressivo della società italiana, prima ancora dell’esplodere della violenza della P38, non c’è più spazio per la bonarietà, per quell’opinione comune degli Italiani brava gente di De Santis. La commedia, seppur già critica, si tinge di nero, si fa amara, si incupisce fino a diventare dramma, orrore. Non c’è più indulgenza per i difetti dell’italiano. Far ridere dei vizi, delle debolezze, vuol dire giustificarli. Si è persa ogni traccia di solidarietà umana. La difesa della condizione sociale è l’unica lotta che valga la pena combattere, a ogni condizione. Lo sa bene il Giovanni Vivaldi di Alberto Sordi, qui in una interpretazione straordinaria.

L’affanno di Vivaldi è volto tutto al mantenimento di uno status di gloria molto relativo; quell’incarico ministeriale, simbolo del livellamento piccolo borghese, che è per lui fonte di prestigio (del tutto personale) e arrogante strumento di rivendicazione di pretese al di sopra della propria portata. Sovrano assoluto nel suo piccolo, microscopico, regno familiare, nostalgico dell’autoritarismo mussoliniano – uomo vero capace solo lui di far andare le cose per il verso giusto – di cui prova a replicare modi e comportamenti nell’intimità domestica, Sordi è pronto a sottomettersi con i potenti, i superiori, pur di mantenere lo status quo della dignità percepita. Come il monarca che crede di essere, Vivaldi fa di tutto per assicurare l’ereditarietà della carica interinale al figlio, non in base a un semplice favoritismo alimentato dalla stima vantata come principale sentimento dei più nei suoi confronti, ma appellandosi al merito autentico del giovane Mario, che ha studiato, ha fatto ragioneria, sa dire «yes», e ai suoi occhi di padre è colto e bello come un eroe romantico. La galleria delle maschere inquietanti attraverso cui il borghese di Sordi e Monicelli passa per aprire la strada ministeriale al figlio è scolpita nel marmo e nel bronzo dell’intera storia sociale italiana. I colleghi grotteschi, i rituali massonici a base di amaro Montenegro e scantinati, il capo reparto vanesio e forforoso, sono l’Italia di quegli anni, ma non solo: una democrazia adolescente e del tutto impreparata alla civiltà e al merito, ancora arenata in logiche clientelari di piccoli feudi di potere.

La raffica di mitra che strappa il figlio dal solco della storia e gloria paterna distrugge tutte le certezze su cui si basava quel mondo piccolo del sovrano Vivaldi. Le colonne della sua autorità, il figlio da plasmare a propria immagine, la moglie da sottomettere crollano e con esse le sicurezze riposte in quella borghesia infinitesimale e simbolica che era centro dell’universo. E Vivaldi si illude che la vendetta sull’assassino del figlio possa essere un nuovo inizio, la benzina in grado di riavviare il motore del mondo, ma diventa invece il combustibile che brucia le ultime macerie, l’incendio che porta via quella moglie ridotta a un vegetale di dolore e di cui Sordi si è ritrovato a essere non più padrone ma servo. Nella solitudine finale del pensionamento coatto, celebrato sbrigativamente da colleghi ormai riassorbiti dall’indifferente routine, il borghese piccolo piccolo scopre che solo la violenza, o l’idea di essa, può essere il carburante, o la speranza, perché il mondo riprenda a girare, affermando la necessità dell’orrore come strumento di reazione all’orrore stesso, come scudo e spada non solo contro l’altrui violenza, ma contro l’ipocrisia della società, contro le devianze del tessuto civico prima ancora che sociale, come tentativo ultimo di restaurazione di un ordine in declino.

(Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli, 1977, drammatico, 118’)