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“Empire State. Arte a New York oggi” al Palazzo delle Esposizioni di Roma

di Flavia Sorato / 7 maggio

Il caleidoscopio è un oggetto che svela molteplici facce. È un susseguirsi di immagini e di dettagli: la varietà racchiusa in una singola cosa. La sensazione che si prova girando per le sale della mostra Empire State. Arte a New York oggi al Palazzo delle Esposizioni è quella di una polifonia visiva: svariate immagini, diversissime tra loro, che appartengono a un unico mondo. È come essere pervasi da un flusso che trasporta nella contemporaneità e conduce tra le pieghe della società moderna. L’opera è multiforme, perché la realtà lo è, quella odierna sempre più, con la sua natura caotica e consumistica. Il mondo è più che mai pieno di cose e uno dei centri di questa crescente proliferazione è certamente New York.

La parola “impero”, nel titolo della mostra, rimanda all’idea di potere: vi è un riferimento al saggio di Antonio Negri e Michael Hardt Empire, riflessione sul capitalismo globale guidato dagli Stati Uniti, e alla storia di Roma in merito all’idea della grandezza e alla forza del suo Impero, soffermandosi a considerare in che modo il potere è diffuso e distribuito all’interno della società.

La mostra riflette sul mondo adottando un punto di vista: quello degli artisti che operano nella città di New York e che ruotano attorno a essa. Venticinque figure, di diverse generazioni, provenienti da ambienti e con background differenti, scelta che vuole definire una precisa concezione dei curatori: Norman Rosenthal e Alex Gartenfeld hanno voluto affermare l’importanza della connessione. Deve esistere una rete nell’arte, vi deve essere uno scambio, una messa a confronto tra le diverse generazioni di artisti, tra le loro opere e, cosa fondamentale, tra le visioni che si hanno della realtà contemporanea. Come Rosenthal dichiara: «Non si può sapere tutto del mondo, ma è giusto offrire alle persone dei segmenti, degli squarci, perché l’arte facendo questo stimola la discussione e induce alla consapevolezza».

La mostra ricrea, nella sua organizzazione, questi rapporti: per esempio John Miller e Nate Lowman sono assimilabili riguardo alla percezione di come la città esiste oggi, e Rebecca Quaytman è esposta vicino a Dan Graham, suo maestro.

Le interrelazioni tra i soggetti rimandano a quelle tra gli oggetti della cui preminenza si prende coscienza poco a poco, muovendosi tra le opere: l’oggetto artistico e l’arte hanno un potere e “l’Impero newyorkese” si fonda anche su questo concetto. La città, che è uno dei poli dell’arte dalla metà del secolo scorso, si è definita nel corso degli anni grazie al lavoro degli artisti che la hanno abitata e amata, intenti a ripensare l’arte stessa in relazione a come la città si è trasformata, è cambiata ed è stata percepita.

Secondo le parole di Daniela Memmo d’Amelio (Presidente ff. Azienda Speciale Palaexpo) la mostra riconduce «all’essenzialità dell’immaginario newyorkese, una costellazione di problematiche più generali legate alla complessità del mondo contemporaneo». Questo immaginario è dato dalla somma di tante personalità, impossibili da riassumere in poche righe senza ridurne lo spessore. È possibile, però, trasmettere una proiezione generale e soffermarsi su alcune opere in particolare che simboleggiano stili, idee e attitudini nei confronti del mondo.

La mostra si snoda tra le ampie sale del primo piano e, appena entrati, se ne coglie subito la ricchezza. Passando da un ambiente a un altro, si ripercorrono le diverse espressioni dell’arte americana, dall’espressionismo astratto, alla Pop Art, al Minimalismo. Proprio all’inizio si collocano i lavori di Ryan Sullivan, interprete di un’astrazione realizzata con lavoro paziente e delicato: la cera, il lattice e la vernice acrilica vengono lasciati a lungo asciugare fino a creare delle forme che ricordano paesaggi naturali, distese desertiche. Le grandi tele ricoperte di materia intaccata, come “December 19, 2011 – December 26, 2011”, imprimono la percezione di trovarsi dinanzi ad aree di terra secca intagliate da fenditure e crepe: il gran Canyon balza alla mente mentre riecheggia l’eco di Burri o di Steven Parrino.
 


L’esposizione prosegue tra i tavoli ricoperti di cose di Uri Aran, che sceglie e combina oggetti tra loro scollegati, operazione che adotta anche nei suoi video: in mostra è proiettato “Harry”, in cui una voce narrante legge una lettera d’amore mentre scorrono le immagini di un notiziario girato davanti a un cantiere. In seguito l’attenzione viene catturata da una frase scritta con il gesso su delle lavagne appese lungo tutta una parete: «Everything will be taken away». Qual è il senso? È un consiglio o un ordine? Niente di tutto ciò, ma forse proprio questo: un’opera concettuale che si fonda sull’interpretazione soggettiva del pubblico che può ricercare una sua personale verità, l’unica possibile. Andando avanti si incontrano installazioni, sculture e dipinti, come le figure deformate di Joyce Pensato che rimandano all’animazione dei cartoni animati, oggetto di studio decennale dell’artista che indaga il lato oscuro e folle di personaggi come Topolino, Paperino, Felix the Cat o i Simpson. Superando delle tende nere si entra a far parte del vissuto di Moyra Davey che si racconta in un video girato nel suo appartamento a New York, intrecciando la storia della propria famiglia, in particolare delle sorelle, alla narrazione di eventi legati alla vita di personaggi come i coniugi Shelley, Goethe, Freud. È una storia intessuta di sofferenze, ma così magnetica e intima da far rimanere seduti a seguirne ogni frammento. Nella sala accanto, invece, si prova una sensazione del tutto differente: magia, sogno e allucinazione si mischiano in una grande installazione dall’atmosfera surreale che apre un altro mondo, altri spazi, dal momento che Mindy Vale, alter ego dell’artista Danny MacDonald, compie un viaggio nel tempo in un video che sembra catapultare l’osservatore in una dimensione alla Terry Gilliam.
 

 

Mentre si procede tentando di assimilare tutti questi stimoli, una carica di ironia si staglia imponente: in “History of the world” di Rob Pruitt, tre dinosauri, a grandezza naturale, fissano nature morte che raffigurano cumuli di roba e spazzatura. È un’installazione coinvolgente, divertente e di grande contenuto: il passato che guarda il presente, gli estinti che osservano coloro che si stanno estinguendo – noi –, scomparsi sotto strati di robaccia inutile. Una metafora che diventa emblema della società contemporanea. C’è qualcosa di kitsch in questi bestioni increduli e scandalizzati, una componente che fa pensare a uno degli artisti americani più rinomati: Jeff Koons. Non poteva mancare in una mostra centrata su New York e dedicata al mondo odierno un’opera come la sua che si rivolge al consumismo, ai piaceri passeggeri della vita e alle sue forme stucchevoli. A Empire State Koons partecipa con la serie “Antiquity”, immagini della dea Afrodite e del dio Pan, attraverso i quali l’artista trova «una misteriosa sintonia con l’antica Grecia, che dedicava ogni sforzo al conseguimento della mimesis, ovvero il massimo dell’illusione. È proprio questa promessa di perfezione, nascosta nella modernità, ma attuata a New York, che Koons esplora e sfrutta». Una New York centro della contemporaneità e generatrice di visioni e di riflessioni su ciò che siamo oggi, in rapporto alla città e al mondo.
 


 

Empire State. Arte a New York oggi
Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma
23 aprile – 21 luglio 2013
Per ulteriori informazioni visitare il sito www.palazzoesposizioni.it