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Libri

“Yellow Birds” di Kevin Powers

di Roberta Biondi / 9 maggio

«L’ignoranza dei mali futuri, e l’oblio di quelli passati, sono lasciti misericordiosi della natura, mediante i quali assimiliamo il miscuglio dei nostri pochi e sventurati giorni,  evitando ai sensi affrancati di ricadere in affilate rimembranze, e alla lama della ripetizione di mantenere in carne viva i nostri dolori».

Eppure. Eppure Kevin Powers, dopo il suo ritorno dalla guerra in Iraq, decide di estirpare ogni ricordo, ogni sparo, ogni corpo senza vita dalla sua stanca mente di reduce. E con Yellow Birds (Einaudi, 2013) lo fa dando vita al personaggio di John Bartle, attraverso i suoi sentimenti lasciati irrimediabilmente allo scoperto, attraverso il suo sguardo immerso nei paesaggi dai colori pastello e l’odore di morte che si aggrappa alla memoria senza più andarsene. Lo conosciamo a tratti, Bartle, prima, dopo e durante il conflitto: un tempo narrativo frammentato e discontinuo mostra l’evoluzione del suo sguardo e del suo sentimento rispetto a un’esperienza ben lontana dal concludersi, anche nella parte finale del libro ambientata nel 2009.

Non esiste distinzione tra il ricordo e la sua assenza cercata, fortemente voluta, un non-ricordo che trasforma anche un oggetto concreto, come una mappa di Al-Tafar con tutti i suoi luoghi intrisi di memoria, in un insignificante reticolo di linee appeso a una parete. Ricordare significa attribuire un significato, chiudere un capitolo, significa espiare ma anche riaprire le proprie ferite: «Quando cerco di rivederlo così com’era, non ci riesco. Quando provo a togliermelo dalla testa, non fa che ritornare più rapido e con più forza. Non c’è pace».

Quello che non lascerà mai Bartle è il ricordo di Daniel Murphy, o semplicemente “Murph”. Un amico, un compagno, un fantasma già condannato in partenza da una guerra alla quale non parteciperà mai per davvero, e che forse proprio per questo lo priverà di ogni possibilità di sopravvivenza.

Powers non cerca la suspense a ogni costo, e il senso di colpa che attanaglia Bartle è evidente fin dall’inizio: la vita di Murph diventa subito sinonimo di una promessa non mantenuta, di una domanda rivoltagli dalla madre del giovanissimo amico, la quale non conosce che una risposta. Il loro è un rapporto creato dalla guerra, privo di complicità ma intriso di comprensione e di volontà di protezione, almeno da parte di Bartle.

Murph invece non lascia mai completamente la sua patria, e di conseguenza neanche l’innocenza di chi non ha mai visto la guerra. Lui non si lascia inghiottire da quell’animale strisciante, da quell’essere inglobante che priva di ogni capacità di agire razionalmente, che infonde una perversa soddisfazione in ogni colpo sparato. Eppure ogni uccisione, ogni banale tragedia quotidiana è circondata da un impietoso distacco, sono atti che vengono compiuti come in sogno e poi contemplati da lontano con sguardo quasi incredulo.

Tutto ciò sullo sfondo di un paesaggio fatto di contraddizioni, un luogo in cui all’improvviso si accende «il gemito orchestrale delle bombe dal cielo», un terreno su cui sembra siano stati seminati cadaveri ma su cui, ogni sera, cala un caldo tramonto rosa.

La prosa di Yellow Birds trascina e lascia invischiati in una storia che ancora una volta abbiamo modo di ricordare, imparare, rileggere, stavolta con occhi diversi. È una testimonianza giustamente spietata e cruda, una fotografia fatta di colori vividi sì, ma forse mai abbastanza: alcune realtà non ci è dato conoscerle fino in fondo, ma possiamo almeno tentare di intravederle, o illuderci di poterle ricordare.


(Kevin Powers, Yellow Birds, trad. di Matteo Colombo, Einaudi, 2013, pp. 200, euro 17)