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“Tutte le feste di domani”: a tu per tu con Veronica Raimo

di Dario De Cristofaro / 1 luglio

Dopo il buon esordio nel 2007 con Il dolore secondo Matteo (minimum fax), Veronica Raimo torna in libreria con Tutte le feste di domani (Rizzoli, 2013). Protagonista della narrazione è Alberta, giovane universitaria ribelle prima, moglie del docente universitario Flavio Falsini poi, infine amante dello scrittore in erba Carsten. Fulcro di un triangolo amoroso tipicamente borghese, Alberta è una figura dalle molte facce, piena di contraddizioni, una creatura bordeline: ribelle e conformista, subdola e fedele, carnefice e vittima.

Attorno a lei ruotano tutti gli altri personaggi, a cominciare da Flavio, il marito di Alberta, mite fino all’eccesso, a tratti puro, vittima dell’idealizzazione che egli stesso ha creato di una moglie che ama senza condizioni; o Carsten, giovane americano alle prese con il romanzo d’esordio, perso dietro al suo narcisismo e a un passato che chiarirà solo con la scrittura, sarà lui la nemesi di tutti gli amanti di Alberta.

Tutte le feste di domani pecca forse di originalità in quanto a trama, ma colpisce per la fluidità della scrittura raggiunta dall’autrice nel corso di questi sei anni trascorsi dal suo esordio.

Abbiamo rivolto a Veronica qualche domanda per conoscere più a fondo questo suo secondo romanzo. 


Vorrei partire dall’inizio, con un’annotazione sull’incipit di Tutte le feste di domani che, a mio parere, funziona molto bene, poiché lascia intendere, in poche righe, senza descriverla esplicitamente, quella che sarà l’atmosfera dell’intero romanzo, con i conflitti di una famiglia alto-borghese e l’artificiosità tipica di un certo modello culturale italiano… Che cosa puoi dirci a riguardo? Quando e come nasce?

L’inizio in realtà nasce in un momento in cui la storia che avevo in mente era molto diversa da quella che ho poi scritto, anche se l’ambientazione è rimasta la stessa. Per parecchio tempo non ho avuto altro che quell’inizio. Un interno borghese e dei rapporti definiti attraverso l’interazione con lo spazio e con gli oggetti, che in fondo è il modo più immediato in cui spesso ci relazioniamo agli altri: studiamo il loro modo di muoversi, di vestirsi, i loro feticci estetici e culturali.


La trama sembra essere invece il punto debole del libro – la messa in scena dello stereotipo borghese, con i suoi tradimenti e la sua misera ipocrisia è qualcosa di già scritto – e, a livello di intreccio, offri poco di nuovo rispetto a buona parte dei romanzi italiani contemporanei. Qual è stato il tuo rapporto con la trama? Quali difficoltà hai incontrato durante la stesura di questo tuo secondo romanzo?

Non ho mai deciso una trama a tavolino, o tentato di elaborare un intreccio volutamente originale e complesso, per cui non so che dire; della trama, pensata come cosa a sé, in effetti non me ne importa quasi niente. Mi viene in mente Two Lovers di James Gray, uno dei miei registi preferiti, se dobbiamo pensare alla trama è quanto di più trito ci possa essere: un uomo combattuto tra una donna pallosa e affettuosa e una completamente scombinata e inaffidabile. Sullo sfondo una famiglia ebrea tradizionale, di quelle raccontate mille volte. Ecco, per me è un film magnifico. L’originalità a tutti i costi mi sembra un finto mito, non allarga i confini della libertà individuale, ma li limita e li rende artificiosi.


La caratterizzazione che fai dei personaggi sembra invece studiata nei minimi particolari, tanto da permetterti di modellare molto spesso i protagonisti del romanzo attraverso il non detto che si nasconde dietro i gesti e gli oggetti…

Be’, mi fa piacere questa cosa. Giocare con il non detto, quando riesce, è anche un modo per non imporre una visione già satura e codificata al lettore, ma lasciargli un margine di immaginazione autonomo. Non mi piacciono le opere troppo chiuse o troppo esplicite, in nessun campo, e non amo la sensazione che lo sguardo sia forzato in un’unica direzione.


La qualità della tua scrittura – fatta eccezione forse per qualche dialogo – è l’aspetto più rilevante del libro: limpida e scorrevole, non affatica mai e si dimostra matura e consapevole. Quanto ha influito in tutto questo la tua esperienza di traduttrice?

Non credo abbia influito molto. Sono due cose che tendo a mantenere piuttosto distinte, però in effetti c’è da dire una cosa: quello che mi irrita di più quando traduco è scontrarmi con delle frasi non logiche, frasi che non hanno senso, che magari funzionano a livello evocativo, ma oggettivamente non hanno senso. Questo tipo di approssimazione nella scrittura mi dà piuttosto fastidio e cerco di evitarla scrupolosamente.


Nel libro ricorrono spesso riferimenti ad autori come Ingeborg Bachmann, Bernand Malamud e persino Giacomo Leopardi. Sono scelti con un significato preciso? Quali sono i tuoi modelli di riferimento?

Molto disparati come si può evincere. Quando mi capita di scoprire ed entusiasmarmi per qualcuno (scrittori, registi, musicisti) sono abbastanza ossessiva e consumo in poco tempo tutto quello che ho a disposizione, quindi credo che quello che mi resta a livello di influenza sia una specie di residuo da assuefazione. In parte l’abuso di citazioni e riferimenti nel romanzo è abbastanza strumentale; Alberta, la protagonista, vive qualsiasi cosa – anche quelle che dovrebbero essere le passioni e le sensazioni più autentiche – filtrate da modelli. È alla continua ricerca di questa mediazione estetica come possibilità di autodefinizione attraverso l’avvicinamento e la presa di distanza da questi modelli. Per quanto mi riguarda, mentre stavo scrivendo il libro le ossessioni del momento erano soprattutto Cheever e Malamud.


Concludo chiedendoti di Roma, la città in cui si svolge la storia che racconti: perché questa ambientazione? Pensi che questa scelta possa aver influito su alcuni aspetti relativi ai protagonisti del romanzo?

Roma innanzitutto perché è la città dove vivo e che conosco meglio. Non ho un’idea diciamo “sociologica” della letteratura, quindi anche nella ricostruzione di una Roma fine ’70/inizio ’80 non sono stata particolarmente scientifica nelle ricerche, ma quello che m’interessava era la conflittualità latente di Roma, una conflittualità che si rigenera e si trasforma in continuazione, senza arrivare a derive drammatiche ma molto spesso tragi-comiche, perché Roma ha questa capacità estrema di contenere e ammansire il conflitto. Parte di quel conflitto latente vive ancora oggi sottotraccia in una presunta pacificazione borghese.


Grazie Veronica per la gentilezza e in bocca al lupo per il romanzo.


(Veronica Raimo, Tutte le feste di domani, Rizzoli, 2013, pp. 306, euro 18)