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Libri

“La traduttrice” di Rabih Alameddine

di Cristiana Saporito / 26 agosto

Dire quasi la stessa cosa, secondo Umberto Eco. Riportare e nel frattanto perdere. Infarinarsi di altri suoni. Sforzarsi di raggiungere un posto da cui comunque si resta lontani. E mentre si parla, assumersi il carico di quello scarto. Sentire sulle spalle che non si potrà abbastanza. Provare sollievo e poi sconforto.

In altre parole, perché le parole sono sempre altre, tradurre. Chi lo fa, per mestiere o vocazione, sa cosa significa. Sa che il significato è un po’ qui e un po’ altrove. Sulla bocca di foglio da cui si parte, sulla terra che si aggancia quando ormai si è sbilanciati e laddove quei sensi non hanno mai attecchito.

Camminare sulle punte, speronando il vento.

Basterebbe già questo a riassumere il gusto del nuovo romanzo di Rabih Alameddine La traduttrice (Bompiani, 2013). La storia è una e anche infinite. Ma fanno tutte capo ad Aaliya, bambina di Beirut. Bambina e poi ragazza e poi adulta in tempi inospitali e in confini pieni di spigoli. È nata donna, quindi quasi un fantasma. È nata da figlia incolore, con una madre immolata solo ai maschi fuoriusciti dalla pancia.

È cresciuta alta e magra eppure non bella, è diventata moglie di un uomo impotente, che l’ha rianimata non respirando più e la sola finestra da cui prendere aria sono stati i libri.

Aaliya ha lavorato in mezzo a loro per una vita intera, in una libreria in cui il suo ruolo era invisibile. Una libreria in cui non è entrato quasi nessuno, tranne gli autori di ogni romanzo. E con loro le passioni, gli stordimenti, le frattaglie e i sottoboschi di ogni avventura che Aaliya ha deciso di tradurre. In arabo.

Mai da scrittori di lingua inglese, né di lingua francese, ideando un sistema solo suo. E senza pubblicare.

Quasi fosse un segreto, perché ciò che si ama si protegge, si conserva nelle scatole, come si fa con le coperte per gli inverni lunghi. Perché ciò che si ama s’impara e non si grida.

E alla luce di ciò che ha letto e poi riscritto, la protagonista si racconta al lettore, passeggiando a ritroso addosso ai suoi anni. Ne ha settantadue, i capelli piovuti da una tinta sbagliata di blu e la solita vestaglia con cui non vuole farsi avvistare dal trittico molesto delle sue vicine.

I ricordi zampillano, come una mano che sanguina passati remoti: l’infanzia sempre all’ombra, la guerra civile, la città bella, calda e abusata. I palazzi più sventrati dei sogni. Le paure di Aaliya, i sonni, il sudore, i soprusi bevuti come fossero acqua, s’intrecciano con quelli di Schulz, di Proust, di Matisse, col mondo di mondi intuiti costeggiando ogni libro. È solo lì che lei esiste davvero. A bordo di ogni vicenda, noleggiando pagine e nomi sulla zattera di altri finali. Quelli che non competono a una zitella infeltrita, che sono diventati i suoi unici amici. «Aaliya la suprema» è anziana, povera, sola. Conosce e assaggia solo uomini di carta. I contatti di carne la intimidiscono, non sono più una sua abitudine.

La soluzione è stare in disparte. Leggere. Leggere e sparire. Tradurre e salvare. Tradurre e lasciare.

Con uno stile asciutto ed elegante, con la lentezza di un corpo che fatica anche a condividersi, Alameddine ci regala uno spaccato complesso e polimorfo. Lo sguardo scomposto di un prisma, un labirinto di creature che può abitare ogni lettore se riesce a offrire un varco. Un capolavoro è ciò che semina nel cuore, i mattoni di silenzi e di evasioni che rafforzano le ossa. E Aaliya lo sa, lo vive, lo trasmette.

Il suo è un metabolismo di parole e personaggi, e anche se questo non è un episodio capitale della letteratura, all’altezza di quelli intorno a cui orbita, resta comunque un viaggio in buona compagnia. La testimonianza che la letteratura, come tutta l’arte, è una risposta possibile. Spesso l’unica. La nostra occasione per essere chiunque, con indosso le battute migliori. Un ponte tra ciò che siamo e ciò che vorremmo in cui il punto d’arrivo è solo un’altra partenza.

 

(Rabih Alameddine, La traduttrice, trad. di Lucia Vighi, Bompiani, 2013, pp.312, euro 18)