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“Se domani si vive o si muore”: a tu per tu con Giuseppe Truini

di Anna Quatraro / 9 novembre

Il romanzo di esordio di Giuseppe Truini, Se domani si vive o si muore (Edizioni Ensemble, 2012), narra una storia di formazione basata sul senso di impotenza e di riscatto civile vissuto dalla generazione dei trentenni precari. Il protagonista Lino si crogiola nella fortuna del padre, piccolo imprenditore di successo, fino al momento in cui a illuminare la sua ricerca di senso sarà proprio il legame con il padre in difficoltà economiche. Così Lino smette i dialoghi con i grandi pensatori francesi per accettare le proprie responsabilità in una realtà sociale più complessa della filosofia. Ne abbiamo parlato con l’autore:


I lati più oscuri del carattere del protagonista, svogliatezza e disillusione, piena comprensione della realtà, lo espongano a una posizione facilmente attaccabile, quasi ricalcando la memorabile equazione espressa a inizio 2012 dall’allora viceministro al Lavoro, non trovi?

La posizione del protagonista nel libro rappresenta un’icona. Lino è lo scoglio contro cui si infrangono le contraddizioni di un’intera epoca. La sua condizione non è stata deliberata da alcuna volontà ed è per questo che può prendersela con tutti senza la possibilità di puntare il dito. Credo che in una situazione come quella attuale, il ministero del Lavoro sia un ossimoro istituzionale, così come metaforiche sono alcuni fantasmi che girano vacui, nel mare della politica. Questa crisi produce milioni di Lino, persi davanti a una bacheca dell’università a chiedersi se ci sarà un domani. È vero anche che il ragionamento di Michel Martone, al di fuori della frase oggettivamente esecrabile per la quale è passato alla cronaca, non sarebbe del tutto insensato se ci trovassimo in un contesto sociale ed economico maturo, perché presupporrebbe un giusto orientamento nei momenti più critici della propria esistenza, quando cioè si opta per la scuola superiore oppure l’indirizzo universitario da seguire. Purtroppo – e parlo anche da insegnante – le cose non stanno così: spesso i ragazzi non sono in grado di scegliere in maniera acritica, non hanno ancora capito quali sono le proprie reali capacità o le proprie vere aspirazioni e perciò scelgono secondo istinto, a volte sbagliando. Ciò comporta una dilatazione dei tempi che si risolvono spesso in fallimenti senza però giustificare un giudizio così netto che grava non sulla carriera bensì sulla persona, spostando il piano del ragionamento dal professionale all’esistenziale.


Questa identificazione inoltre scarica il problema della disoccupazione sulle aspettative di poter entrare grazie al solo merito nel mercato del lavoro, quando ciò invece non si verifica in maniera così lineare.

L’equazione più pericolosa e che ormai sembra essere pacificamente assodata è quella che identifica le persone con il lavoro che svolgono, secondo un’ottica importata dal modello americano che mal si concilia con quello italiano, basato su logiche ben diverse e quasi mai realmente meritocratiche. Lino a 28 anni non si è ancora laureato semplicemente perché non gli interessa, non perché è un fallito o, per dirla con Martone, uno “sfigato”. Vive sospeso in una dimensione adolescenziale perché non vuole diventare adulto, anche perché i modelli proposti gli sembrano insoddisfacenti. Se letto in maniera convenzionale, quindi, risulta più che attaccabile. Però lui rifugge tali logiche. Anzi, è proprio per non sottostarvi che ha scelto una facoltà diversa da quella che avrebbe voluto frequentare. E l’episodio dell’esame di maturità, in questo senso, è indicativo.


Tutta via la soluzione positiva risolve l’apatia di Lino, le sue brillanti capacità analitiche che fanno sì che l’immobilità si evolva verso la decisione di entrare nelle dinamiche prima solo criticate.

Nel romanzo ci sono una serie di esplosioni, ognuna preceduta da una chiamata alla responsabilità. Lino sente la necessità di restituire qualcosa al padre quando questi ne ha bisogno e quindi, dalla dimensione di immobilità in cui si era autorecluso, deve uscire per affrontare una serie di difficoltà reali che, per la prima volta, lo portano a pensare non solo a sé ma anche all’altro da sé – i dipendenti dell’azienda – sui quali si riverberano le sue azioni. In un passo Lino conclude che si esiste veramente quando vengono compiute azioni che ricadono – in positivo – sugli altri. Scrivendo quelle pagine ho riflettuto molto sulla dimensione-lavoro messo in crisi dal cambiamento delle dinamiche capitalistiche a livello europeo e mondiale. In questo senso Lino è un simbolo non di un una generazione quanto di una coscienza collettiva che, sebbene sia consapevole della gravità della situazione, ancora non è in grado di comprenderla del tutto. Avrebbe certamente potuto rifiutarsi, rimanendo nel suo limbo dorato e fuori corso, però non se l’è sentita. È quello il momento in cui rinasce ed è quello il momento in cui trova una serie di risposte a domande che neppure si era mai posto. Questo si traduce in una serie di spostamenti non solo fisici ma soprattutto esistenziali e sentimentali. I modelli di Lino sono personaggi che con questi temi hanno poco a che fare. Ho immaginato Lino come l’ideale nipote di personaggi come Lazzaro Sant’Andrea di Pinketts o Vincenzo Malinconico di Da Silva. Ho avuto però l’arroganza – se così si può dire – di far evolvere quel tipo di carattere dimesso e riflessivo fino ad uno scontro, vero fulcro intorno al quale ho costruito il romanzo.


I temi della precarietà e dalla perdita del lavoro si legano anche alla perdita potenziale di civiltà e senso etico, e allo scarto fra alte speranze e caduta delle promesse che un benessere più alto dispensava. Così la prospettiva del futuro, condizionata da naturali bisogni di realizzazione professionale, si scontra con aspettative gonfiate: in questa morsa sono intrappolati i cinque amici protagonisti del romanzo. Da parte tua, nel romanzo non manca la consapevolezza del pericolo di una deriva distruttiva, dettata più dalla rabbia che da reali rivendicazioni politiche.

La mia è la prima generazione dopo la seconda guerra mondiale che non ha prodotto alcuna manifestazione di protesta collettiva e costruttiva. Il ’68, con i suoi strascichi durati fino al ’77, proponeva una visione del mondo che si è risolta in due modi diversi: un folcloristico rifiuto della modernità e un terrorista tentativo di rivoluzionarla. Da allora c’è stato un appiattimento consumistico che ha inibito qualsiasi forma di obiezione che il capitalismo non sia stata in grado di fagocitare. Un singulto sembrava essersi levato con le manifestazioni no-global, che però non hanno saputo trasformare gli eventi in processi e proposte reali di cambiamento e di conseguenza sono state assorbite dalla violenza anarchica dei black block e poi annichilite dall’attentato dell’11 settembre negli USA. Ma si trattava in ogni caso di problematiche percepite come lontane, non in grado di modificare veramente la visione del mondo dei giovani. Lino, probabilmente, non conosce neppure la causa dei contadini del Chiapas o degli zapatisti del subcomandante Marcos di cui si faceva un gran parlare appena dieci anni or sono. Semplicemente perché a lui, e a gran parte dei suoi coetanei, la quotidianità porta altri problemi, che esistono ma non sono razionalizzati. Solo attraverso una crescita individuale – culturale, civile – si può affrontare un processo di miglioramento perché esso nasce dal ragionamento e non dall’azione distruttiva nichilista. Non si tratta di una provocazione futurista quanto di una spontanea reazione individuale e generazionale ad uno spazio promesso ma non mantenuto, un’esigenza naturale che non può essere silenziata e di cui bisogna prevenire la deflagrazione.


Passando allo stile del romanzo, chiaro e incisivo: è stato il personaggio a richiedere uno stile così preciso? Come ci sei arrivato?

La voce di Lino è arrivata dopo diversi tentativi. Narratore in prima persona al passato remoto, terza persona e infine prima persona al presente, ma quando è arrivata, si è stesa spontanea e naturale fino alla fine, sebbene frutto di un controllo costante sulla frase. Una narrazione ossessivamente orientata verso la descrizione del disagio avrebbe allontanato il lettore e reso di conseguenza inutile l’evoluzione stessa della storia; così un appiattimento sull’ironico lo avrebbe reso poco serio e quindi non degno di considerazione. Ho voluto costruire delle pagine il cui tono virasse su registri lirici ed elevati, così come, a seconda dell’esigenza, sul grottesco e perturbante.


Quale sarà il tuo prossimo lavoro?

Ho iniziato la prima stesura di un nuovo romanzo. Sono circa ad un terzo del lavoro e sto raccogliendo il materiale per le pagine successive. I temi che tocco sono molto differenti da Se domani si vive o si muore anche se i due libri saranno collegati tra loro. In questo testo mi concentro su aspetti più esistenziali che politici. L’idea di partenza è che ognuno nasca due volte. La prima volta è quella biologica, la seconda quando a livello inconscio si capisce cosa si vuole diventare, e si parla della guerra combattuta per riuscire a realizzarsi.


Grazie per la tua disponibilità.

 

 

(Giuseppe Truini, Se domani si vive o si muore, Edizioni Ensemble, 2012, pp. 212, euro 15)