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Cinema

[Best 2013] I film

di Redazione / 21 dicembre

Tempo di inevitabili classifiche, la fine di un anno solare. Sensibili a fattori estremamente mutevoli, come il gusto personale, il contesto di riferimento, la percezione sociale, i film come ogni altra espressione artistica sono difficilmente collocabili in graduatorie universalmente accettabili. I rischi di parzialità, mancanze o campanilismi (ci cascano pure i Cahiers du cinema, che indicano sei film francesi nella loro top ten 2013) sono sempre in agguato.

Si è scelto di lasciar perdere una classifica vera e propria (anche se in fondo troverete cinque indicazioni più specifiche) per concentrarsi piuttosto sugli aspetti che maggiormente hanno lasciato il segno del cinema distribuito in Italia nel 2013.
Un aspetto da ricordare, prima di procedere nella lettura, è quello che sottolineava Alberto Moravia ogni volta che parlava della sua professione di critico cinematografico: «Al cinema, la noia è l’unico rischio da evitare». Al cinema ci si va per divertirsi, perché pur non essendoci «alcuna differenza a livello artistico tra un romanzo e un film», ne rimane una sola, di fondo: «Il cinema è anche spettacolo».

Le conferme dal Nord America

Il lato positivo, Argo, Lincoln, Zero Dark Thirty, Rush, Prisoners, Gravity, il recupero sacrosanto di Blue Valentine, e così via. Il cinema americano visto in Italia nel 2013 ha ribadito ancora una volta di essere in grado di appassionare e divertire, con un’offerta di titoli che ha abbracciato tutti i generi, contaminando e innovando, e l’affermazione di nuovi autori che si affiancano a conferme di rango.

La riscossa del documentario

La vittoria a Venezia di Sacro GRA di Gianfranco Rosi ha fatto muovere un enorme passo avanti al genere documentario lungo la strada dell’equiparazione, nella considerazione generale, con il cinema di finzione. Al di là dei tentativi più o meno opportuni e goffi di emulare la mossa veneziana (il Marco Aurelio d’oro regalato al docu-fiction TIR a Roma), nella percezione della critica la barriera tra le due grandi categorie cinematografiche si è abbattuta da tempo e il 2013 lo ha confermato: per Sight & Sound, la rivista ufficiale del British Film Institute, il film dell’anno è stato The Act of Killing, devastante documentario di due ore e mezzo realizzato da Joshua Oppenheimer incentrato sui massacri perpetrati dai gangster indonesiani tra il 1965 e il 1966 (circa un milione di persone uccise praticamente a mani nude) contro i dissidenti politici, mentre Leviathan della coppia Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, dedicato all’industria ittica nord-americana, continua a girare per i festival di tutto il mondo nonostante sia passato più di un anno dalla premier svizzera di Locarno.

Ci sarebbe da discutere se sia sensato e giusto giungere alla piena equiparazione tra due generi che condividono poco sul piano dello stile narrativo e della forma espressiva, come ipotizzare che un saggio venga valutato con gli stessi criteri di un romanzo per intendersi, ma si aprirebbe un dibattito che esula dalla circostanza.

La riscoperta dell’impegno nel cinema italiano

Si inizia da Venezia 69, con Gli equilibristi di Ivano De Matteo e Bella Addormentata di Bellocchio, si prosegue nella coda di 2012 con Viva l’Italia di Massimiliano Bruno, poi nel 2013 via con Buongiorno Presidente di Milani, Viva la libertà di Andò, L’intrepido di Amelio, L’ultima ruota del carro di Veronesi, fino ad arrivare all’ultimo caso, La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto in arte Pif, per proseguire a gennaio con l’eccellente Il capitale umano di Paolo Virzì. Mai come nel 2013 il cinema italiano sembra aver riscoperto una vocazione civile, la voglia di parlare della società, degli uomini che la compongono, politici o comuni cittadini che siano, e della crisi economica e di costumi che sta colpendo il Paese negli ultimi anni. Lo fa con registri differenti, dal drammatico alla commedia, con esiti non sempre convincenti e con riscontri di pubblico solo in pochi casi incoraggianti (i film di Andò, Pif e Bruno), ma lo fa, allargando lo sguardo da quella dimensione ombelicale in cui troppe volte è stato accusato di aver indugiato e tornando a proporsi come specchio, che sia dissacrante o realistico poco importa, della società e delle sue difficoltà.

Palati forti

Quello che non è mancato è stato il coraggio nell’affrontare storie scomode, difficili, scottanti, a tratti scandalose. Basti pensare al trionfale La vita di Adele di Kechiche o a Lo sconosciuto del lago, di Guiraudie, incentrati su relazioni omosessuali, alla prostituzione minorile di Giovane e bella, per rimanere ancora in Francia, o alla crudeltà della famiglia greca di Miss Violence, o, per parlare ancora del cinema italiano, al tema dell’eutanasia affrontato, oltre che da Bellocchio, da Valeria Golino nel suo esordio da regista con Miele.

La grande bellezza

Che sia piaciuto o meno, che si sia d’accordo oppure no, il film di Paolo Sorrentino è il film che ha connotato la stagione cinematografica italiana (tralasciando gli incassi imbarazzanti del film di Nunziante, Sole a catinelle, con Checco Zalone). Ne hanno parlato tutti, su internet, sui giornali, in televisione, accumulando giudizi e opinioni, dal capolavoro magistrale alla «cagata pazzesca» di fantozziana memoria. «Sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore» rimane un film che ha vinto quattro premi – regia, miglior film, miglior attore per Servillo, miglior montaggio – agli European Film Awards, che concorre per il Golden Globe per il miglior film straniero e che ha buone probabilità di finire nella cinquina dei candidati all’Oscar per la stessa categoria. Considerando che è dal 2006 di La bestia nel cuore che nessun italiano ce la fa, non è poco.

Cinque pezzi facili

Concludiamo con cinque momenti di cinema che hanno maggiormente colpito chi scrive e il suo gusto personale. Il giudizio prescinde dall’effettiva validità dell’oggetto citato ma vuole indicare cinque episodi del cinema distribuito nel 2013 che per un motivo o per l’altro hanno lasciato un segno. Non c’è alcun ordine nell’elenco, così come non c’è alcun criterio logico o estetico.

– La grande bellezza, di Paolo Sorrentino, per la letterarietà del personaggio Gambardella.

Miss Violence, di Alexandros Avranas, per la brutale rappresentazione dell’orrore familiare.

Still Life, di Uberto Pasolini, per la tenera tristezza della solitudine.

Stoker, di Chan-wook Park, per la perfezione formale della messa in scena.

– Jennifer Lawrence, per aver vinto l’Oscar a ventidue anni (seconda sola a Marlee Matlin, che ne aveva 21 nel 1987 quando vinse per Figli di un dio minore), essere caduta mentre lo ritirava e per la capacità di riempire ogni ruolo.