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“L’ultimo regalo” di Gianfranco Pecchinenda

di Valentina Di Biase / 24 gennaio

«La scomparsa di una persona cara assume a volte proprio quella stessa funzione, diventa come un raggio di luce, un violento flash che tristemente illumina alcune zone d’ombra del nostro passato: come un uppercut».

Il dolore arriva, per tutti. È un ciclo. Prima di diventare madri o padri si è figli, bisogna imparare a essere figli, anche se nessuno può insegnarti come affrontare una perdita.

Parigi, Boulevard Raspail, una telefonata e sei orfano. Quello che farai subito dopo non ha importanza, non ha importanza dove pranzerai, cosa mangerai, in che modo sceglierai di difenderti.

Ne L’ultimo regalo (Lavieri, 2013) Gianfranco Pecchinenda ripercorre la prima parte della sua vita insieme alla madre, dal Vomero di Napoli la trasporta fino a Caracas in un viaggio immaginario fatto di piccoli momenti di quotidianità preziosi per l’autore. Parigi è l’ultima tappa, quando arriva la telefonata che ne annuncia la morte c’è ancora tanto da dire, da dimostrare, ma il tempo a disposizione è finito, quello che rimane è la graduale consapevolezza di essere soli, di non avere più protezione, di non poter più essere figli: «Le cose più importanti, quelle più sincere, tanto, verranno fuori dopo, quando avrò finito, anch’io, di vivere. Quando avrò finito di scrivere ciò che credo di dover raccontare. Mi pare di averlo già ripetuto: non si scrive ciò che si vuole».

Se da una parte la scelta di Pecchinenda di usare la seconda persona singolare mette il lettore in una condizione di disagio, come se i ricordi dell’autore debbano trovare sfogo nell’identificazione forzata, dall’altra il ritorno alla prima persona nell’ultima parte del libro, fa capire quanto in effetti sia fin troppo ostica una reale immedesimazione.

Il sé riflesso, il doppio tra “Lo scrittore” e “L’Altro” non fa che alimentare questo distacco, chi legge diventa irrimediabilmente il terzo incomodo in una vicenda familiare che non gli appartiene, l’estraneo che entra in punta di piedi e aspetta in un angolo per tutto il tempo.

L’ultimo regalo non è un romanzo, ma non può definirsi nemmeno diario, perché i ricordi vengono affidati alla pagina nell’istante in cui ritornano alla memoria, dispersivi, spesso parziali e con evidenti salti temporali. Ed è qui che entrano in gioco gli scrittori preferiti di Pecchinenda, per riempire quei vuoti quando «descrivere l’inenarrabile» diventa impossibile.

Interi passi de La montagna magica di Thomas Mann o i versi di Questo amore di Jacques Prévert, e poi ancora Kafka, Vargas Llosa, Céline, Camus, Tolstoj, Nabokov, Cervantes, Márquez, Marai, La Rochelle, Updike, troppi, tutti presi in prestito per incoraggiare una prosa altrimenti piatta.

«Sento di avere ancora qualcosa da esprimere, provo allora a fare un ultimo sforzo, prima di chiudere del tutto. Vorrei ad esempio scrivere qualcosa che possa far riemergere i momenti più felici o addirittura, tra questi, quello più felice trascorso insieme a te. Ma non ci riesco».

Il dolore arriva per tutti, si sa, è un ciclo. Questo è un libro scritto per alleviare un dolore che non passerà mai.

(Gianfranco Pecchinenda, L’ultimo regalo, Lavieri, 2013, 120 pp., 10,90 euro)