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Libri

La melodia del dialogo

di Marco Piazza / 1 febbraio

Chi sono, veramente, l’americano e Jig: l’uomo e la donna protagonisti del racconto di Hemingway “Colline come elefanti bianchi”? Questa domanda se la pone Milan Kundera nel capitolo intitolato “Alla ricerca del presente perduto” del suo I testamenti traditi. Il racconto-capolavoro di Hemingway è costituito quasi esclusivamente dal dialogo fra i due protagonisti e tutto è basato su un’omissione, un non detto, una tensione che accompagna il lettore fino all’ultima battuta.

La parola che non viene mai pronunciata, ma che intorno alla quale si sviluppa il dialogo fra i due protagonisti, è: aborto. Kundera quindi azzarda qualche ipotesi: l’uomo è sposato e costringe l’amante ad abortire per riguardo verso la propria moglie; non è sposato e vuole che lei abortisca perché teme di complicarsi la vita; oppure ancora, è gravemente malato e lo spaventa l’idea di lasciarla sola con un figlio. Ci sono infinite possibilità ma il fatto è che le reali circostanze dei personaggi rimangono del tutto oscure. L’interesse di Kundera però è un altro: poche pagine più avanti Kundera ribatte punto su punto un’interpretazione del racconto da parte di Jeffrey Meyers, autore di una biografia di Hemingway nel 1985, il quale a tutti costi cerca di spiegare il racconto, di attribuirgli un significato, una morale. Meyers scrive: il racconto «rappresenta forse la reazione di Hemingway alla seconda gravidanza di Hadley» (la prima moglie dello scrittore). Niente di più irritante, per Kundera.

Ciò che interessa allo scrittore ceco è riflettere sul fatto che, per quanto questo racconto sia supremamente astratto e delinei una situazione quasi archetipica, è al tempo stesso estremamente concreto, poiché cerca di captare la superficie visiva e acustica di una situazione tramite il dialogo. Mentre leggo questa frase mi vengono in mente altri racconti-capolavoro quasi interamente basati sul dialogo: per esempio, “Una giornata ideale per i pescibanana” di J.D. Salinger e molti dei racconti di Raymond Carver.

Il valore del racconto di Hemingway, secondo Kundera, sta nella capacità di cristallizzare la sfuggevolezza del concreto, la concretezza del dialogo. Avete mai provato – chiede lo scrittore – a ricostruire un dialogo della vostra vita, di una lite o di un amore? È praticamente impossibile. Ciò che rimane in mente è il senso generale dello scambio di battute, in astratto. Siamo rassegnati a perdere la concretezza del tempo presente: l’attimo presente viene immediatamente trasformato nella sua astrazione.

Il discorso poi si fa più ampio e Kundera scava nel passato per cercare il punto in cui, nella sua evoluzione, il romanzo ha cominciato a occuparsi del concreto. Kundera indica Flaubert come colui che, per la prima volta, è riuscito ad affrancare il romanzo dalla teatralità. Fino agli inizi dell’Ottocento, l’elemento fondamentale della composizione del romanzo è la scena. Scott, Balzac, Dostoevskij, strutturano i loro romanzi come un susseguirsi di scene descritte minuziosamente. In questo senso viene mosso un primo passo verso la ricerca della realtà, ma più in modo ispirato dall’arte drammatica che da non dalla concretezza – spiega Kundera – più dal teatro che dalla realtà. Il romanzo quindi appare come una sceneggiatura ricchissima di particolari. Il vero salto avviene con Flaubert. Nei suoi libri i personaggi si incontrano in un ambito quotidiano che interviene continuamente nella loro vicenda intima. Kundera la definisce come la scoperta della struttura dell’attimo presente; la scoperta di quella perpetua coesistenza di banale e di drammatico che è alla base delle nostre vite.
 


Allargando ulteriormente il discorso, Kundera ci fa notare come la passione per il concreto non è esclusiva del mondo del romanzo ma, in tempi e modi diversi, si manifesta anche in altre forme d’arte. Per quanto riguarda l’opera lirica Kundera indica Leoš Janáček come colui che ha operato, cinquant’anni dopo, la rivoluzione Flaubertiana. E a questo punto apro una parentesi.

Fino ai venticinque anni Kundera era attratto più dalla musica che dalla letteratura e questo amore giovanile lo influenzerà nel corso di tutta la sua carriera. Anche quando scrive dell’Arte del romanzo, Kundera ama utilizzare un linguaggio prendendo in prestito la terminologia della musica. La struttura stessa di un romanzo può essere paragonata a una composizione musicale – la divisione del romanzo in parti, delle parti in capitoli, dei capitoli in capoversi e quindi, una parte è un movimento, i capitoli sono battute e queste possono essere brevi o lunghe, introducendo così il concetto di tempo. Ogni parte dei suoi romanzi – scrive Kundera – potrebbe portare un’indicazione musicale: moderato, presto, adagio. Questa analogia non vale solo in termini di struttura ma è la terminologia musicale stessa che Kundera utilizza per analizzare un romanzo. Per esempio: il motivocome elemento del tema o della storia che ricorre più volte nel corso del romanzo in un contesto sempre diverso. Oppure: polifonia, concetto prettamente musicale ma che Kundera utilizza per far notare la presenza di diversi generi all’interno di un romanzo.

Kundera racconta della sua soddisfazione una volta conclusa la terza parte del suo Il libro del riso e dell’oblio, ovvero l’esser riuscito a far coesistere generi diversi in un unico brano – tecnica poi utilizzata nella maggior parte dei suoi lavori, i quali uniscono elementi diversi che potrebbero esistere individualmente ma che, uniti, si completano a vicenda e vanno ad assicurare la coerenza del romanzo, ovvero l’unità tematica. Un tema comune, che è sempre un interrogativo esistenziale.

La stima di Milan Kundera per Leoš Janáček è tale da portarlo ad affermare che, se gli venisse chiesto in virtù di cosa il suo paese natale si è inscritto in modo duraturo nei suoi geni estetici, non esiterebbe a rispondere: la musica di Janáček. Le coincidenze biografiche hanno avuto una certa influenza: Janáček ha vissuto per tutta la vita a Brno, così come il padre di Kundera che, giovane pianista faceva parte della cerchia entusiasta (e isolata) dei suoi primi estimatori e sostenitori. Kundera è nato un anno dopo la morte di Janáček e sin dalla prima infanzia ha ascoltato tutti i giorni la sua musica eseguita al piano da suo padre o dai suoi allievi.

Al funerale di suo padre, nel 1971, in piena occupazione russa, Kundera ha proibito ogni discorso. Al crematorio, soltanto quattro musicisti hanno suonato il secondo quartetto d’archi di Leoš Janáček. Non sorprende quindi che, nel 1983, quando Christian Salmon ha intervistato Kundera per The Paris Review – i due si sono incontrati varie volte in un piccolo attico vicino a Montparnasse – nella stanza che lo scrittore aveva adibito a studio, tra l’arredo semplice e le librerie colme, su una parete fossero appese due foto: una di suo padre e una di Janáček.
 


Janáček viene oggi ricordato come compositore ma anche come teorico. Molti studiosi si sono dedicati al suo lavoro, in particolare concentrandosi sul suo realismo musicale e sulle Speech Melodies.

La tecnica di Janáček viene definita come «brutale giustapposizione al posto delle transizioni, ripetizioni invece di variazioni e andare sempre al cuore delle cose». Le stesse tecniche che Kundera vuole applicare al romanzo. Così come Janáček si sforza di utilizzare solo le note strettamente essenziali, le note che hanno qualcosa da dire, Kundera fa lo stesso con le parole.

È proprio il suo lavoro intorno alla melodia del dialogo – che Janáček definiva nápěvky mluvy (speech-tunelets) – ciò che permette a chi si occupa di letteratura, di parole invece che di note, di trovare un elemento comune: il concreto di Hemingway. Lo scopo di Janáček era di catturare con precisione scientifica quegli effimeri momenti acustici, quelle espressioni del pensiero e delle emozioni umane. L’obiettivo era quello di dare al dialogo una forma materiale che lui avrebbe poi potuto catalogare e consultare ogni qualvolta ne avesse avuto bisogno per la sua attività di compositore. Janáček ha scritto che la sua ricerca sulla melodia del dialogo è in realtà un’esplorazione dell’animo delle persone.

Nel suo articolo “The border between speech and song” Janáček è conscio del fatto che le melodie del dialogo diventano distorte e trivializzate una volta trascritte. È come se si asciugassero, scrive, e perdessero la loro spontaneità. Le trascrizioni, per forza di cose, privano le melodie del dialogo della loro segretezza, diventando fredde annotazioni musicali. E comunque Janáček ha proseguito per tutta la vita ad annotare questi speech-tunelets e tale costanza permette a queste note di avere un valore anche come documentazione della sua vita e dei suoi movimenti.

Il suo catalogo però, costituito da migliaia di annotazioni sparpagliate su taccuini, articoli, note e lettere, rimase senza un ordine sistematico. Solo il lavoro a posteriori di studiosi ha permesso in qualche modo di catalogare tutti questi frammenti. Ne risulta che si possono notare almeno quattro categorie di speech melodies (a) quelle del linguaggio dei bambini, (b) quelle tratte dalla vita quotidiana (c) quelle appartenenti alla sua vita privata e (d) quelle tratte dalle melodie della natura: uccelli, api, animali domestici, e da oggetti inanimati: il ronzio di cavi, acqua, tuoni, suoni meccanici.

Certamente Janáček non è il solo a essersi dedicato a questo tipo di ricerca. Studiosi hanno trovato numerosi parallelismi fra il lavoro di Janáček e quello di altri compositori. Avvolgendo il nastro della storia della musica penso a John Coltrane e al periodo be-bop: non erano forse quegli assoli improvvisati e aritmici un modo per riprodurre un sentimento più profondo? E ancora, più avanti, lo stesso Frank Zappa ha affermato che nei suoi assoli si è spesso ispirato alla musicalità del dialogo, riproducendo ritmiche che non sono calcolate ma che seguono un andamento libero, paragonabile a quello del linguaggio parlato.

Siamo partiti da Hemingway e da una delle sue ossessioni artistiche, ovvero il cogliere la struttura della conversazione reale. Abbiamo visto come letteratura e musica si sviluppino con metodi differenti verso un unico obiettivo. Lascio che siano le stesse parole di Kundera ad esprimere il valore del lavoro di Janáček e allo stesso tempo definire quella tensione artistica che accomuna chi si occupa di note e chi di parole.

«La ricerca del presente perduto; la ricerca della verità melodica di un istante; il desiderio di sorprendere e di captare questa verità fuggevole; il desiderio di penetrare così il mistero della realtà immediata che abbandona di continuo le nostre vite, facendone in tal modo la cosa meno conoscibile di questo mondo. Tale è, a mio avviso, il significato ontologico degli studi sulla lingua parlata di Janáček e forse anche di tutta la sua opera».