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Libri

“L’infanzia di Gesù” di J.M. Coetzee

di Anna Quatraro / 7 febbraio

La tesi secondo la quale l’arte ha in sé il fine della celebrazione del bello e diventa il mezzo per esprimere un’unione con il bello, come sottolineato da Severino in reazione all’orizzonte del nichilismo, si lega a libri che abbiano la capacità di metterci grazie alle domande vere che sanno proporre in relazione con le nostre idee più intime sulla vita. Se leggerete L’infanzia di Gesù di  J.M. Coetzee (Einaudi, 2013) dovrete annodare le reminiscenze filosofiche per comprendere i sottotesti che gli permettono di avere il tono diretto e mitragliante del miglior Tolstoj. Accanto a una speciale chiarezza di visione, il libro di Coetzee ha una forte carica di mistero, un’ascendenza metafisica e distopica che nel corso della narrazione avvolgono i dialoghi dei personaggi rendendo fluidi anche i nodi e le contraddizioni dell’universo che l’autore crea. I significati che se ne possono trarre sono davvero molteplici.

Un bambino, David, l’immagine della purezza e della  spontaneità onnipotente incontra Inés e Simón, che hanno scelto di esserne i genitori. Simón si incarica di essere suo padre, nonostante la costante sfida che il bambino, così eccezionalmente dotato, mette contro la logica comune e il buon senso. La lettura che ne fa la scrittrice americana Joyce Carol Oates è molto interessante: David sembrerebbe il simbolo dell’immaginazione infantile, intesa come vicinanza alla gloria divina espressa dal poeta Wordsworth. Attorno a lui, c’è il normale corso di un luogo dove il lavoro è il grande scopo, dopo un approdo dal nulla quel luogo non può che essere provvidenzialmente migliore, una colonia penale dove il massimo piacere è dato da corsi di filosofici di vago sapore platonico, dove il sesso è trattato come uno dei bisogni quanto la fame, ma bisogna lavorare perché il pane è nutrimento del corpo. Nella definizione della Oates, i personaggi sarebbero «zombi bendisposti», in un luogo dove l’armonia cameratesca è un dovere. C’è un senso di vacuo egalitarismo, di misera accettazione di una specie di noioso paradiso? Sì, eppure c’è anche il senso del sapere imposto in modo da poter perpetuare, un forse troppo, sistema fine a sé stesso. Inés vorrebbe salvare il figlio adottivo da quell’universo poco disposto ad accettare un bambino visionario e fiero delle proprie domande metafisiche. C’è l’ottimismo leibniziano nel constatare che tutte le cose hanno un loro ordine interiore necessario e rivolto al bene, il senso pratico e finalistico degli oggetti, c’è la sensazione di trovarsi dentro una favola di sapore buddista per le risate sontuose che il bambino si fa contro gli adulti. C’è la riflessione sulla doppiezza della natura umana, la spiegazione di com’è che il particolare diventa universale, insieme ad altre divertite trasfigurazioni delle idee platoniche. Lo sguardo leggero, profondo, abissale del bambino è un volersi allontanare per dimostrare di possedere la verità, o per mostrare il modo grazie al quale scorgere il vero.

Dopo averci riflettuto, una possibile spiegazione mi sembra quella di spirito creativo in rivolta, l’ostinatezza del bambino, in parte alter-ego dell’autore, di creare visioni poetiche che ancora non esistono, rivelando il cuore e il pensiero dei suoi genitori.


(J.M. Coetzee, L’infanzia di Gesù, tra. di Maria Baiocchi, Einaudi, 2013, pp. 256, euro 20)