Flanerí

Libri

“La creatura del desiderio” di Andrea Camilleri

di Mario Massimo / 10 marzo

Si apre, il nuovo, felicissimo libro di Andrea Camilleri, La creatura del desiderio (Skira, 2013), nel segno del mito greco: quello, innanzitutto, di Elena “egizia”, cioè del simulacro fatto «di una materia nobilissima: un lembo di cielo» che, come cantò prima Stesicoro e quindi Euripide – ma anche, a non molti anni di distanza dalla vicenda di cui il libro parla, Hofmannsthal, in un raffinato libretto per Richard Strauss –, avrebbe preso il posto dell’eroina spartana nel letto di Paride e sugli spalti delle porte Scee dove i vecchi troiani diranno che una donna simile val bene il «soffrir lungo tempo dolori». Ma, siccome l’eroe principale del libro è un pittore, il secondo mito che Camilleri cita è, coerentemente, quello di Pigmalione, fra le cui braccia, per dono della dea Afrodite, la statua bellissima da lui scolpita, e sterilmente amata, si animò del soffio vitale, e divenne calda carne di donna.

Tuttavia, è bene dissipare subito l’impressione che posso incautamente aver suscitato, di un libro dal sapore gessoso, di cosa antiquaria: ben presto, Camilleri mette da parte i riferimenti mitologici (per quanto utilizzati, va detto, senza alcuna mutria accademica), e passa a dar voce agli stessi protagonisti della tormentosa, davvero “umana-troppo-umana”, vicenda di attrazione, sensualità rapinosa, sofferenza e distacco e ancora altra sofferenza, che avvinse il pittore e drammaturgo espressionista Oskar Kokosckha e la splendida, matronale Alma Schindler, poi maritata e vedova Mahler, e ancora più e più volte unita a uomini tutti di forte caratura intellettuale, quali Walter Gropius o Franz Werfel («Alma è una donna», commenta Camilleri, sornione, «curiosa degli uomini, ma non degli uomini comuni, che l’annoiano mortalmente»).

Ed è qui che fa capolino il secondo, molto più novecentesco, nume tutelare di Camilleri: Pirandello. Perché passando, nei capitoli successivi, a narrare la storia dell’incontro fra i due, del loro accendersi rapidissimo e insaziato, e, dopo i primi amplessi, dello svegliarsi sempre più torturante, in Kokoschka, della gelosia – nella forma, per altro, più acuta e angosciosa: quella postuma, verso la grande ombra del, forse da lei non amatissimo, musicista boemo, il quale, tanto per dirne una, alla notizia che la prima delle due figlie che lei gli diede si presentava di schiena al momento del parto, non seppe far di meglio che commentare: «Brava, ha capito subito quale è la parte da mostrare a questo mondo!», Camilleri dà la parola prima a lui e poi a lei: e non è, per molti e significativi dettagli, lo stesso modo di vedere le stesse cose.

Ancora più pirandelliano, proprio nel senso della “corda pazza”, è però quello a cui Camilleri ci fa assistere – e i documenti fotografici non fanno che aggiungere un retrogusto di lieve ribrezzo al nostro voyeuristico accostarci al buco della serraura di questa privatissima, e anzi che no sordida, stanza delle torture – quando poi Alma, in un rigurgito della sua femminilità mortificata dalla gelosia maschile di Oskar, abortirà volontariamente del figlio che stava per dargli e lo abbandonerà, per sempre e senza più tentennamenti («È stato l’uomo col quale ho più litigato ed è stato l’uomo col quale sono stata più felice»), e lui, allora, concepirà il disegno assurdo, follemente, lucidamente perseguito, per giunta con le splendide capacità creative che la natura gli ha dato: farsi costruire un simulacro di Alma, che resti con lui, che sia, in tutto e per tutto, «come lui la vuole».

Ed è questa, sicuramente, la parte più felice e godibile del libro, quella in cui meglio si sente, e si apprezza, la mano espertissima, svelta e cristallina insieme, del creatore d’immagini televisive che Camilleri è stato in gioventù: il dialogo (che pure recupera, con un abilissimo, dissimulato gioco di citazione, battute dello stesso Kokoschka prese da  due suoi copioni teatrali) è perfetto nella sua funzionalità, il taglio narrativo delle scene incalzante e calibratissimo. La sequenza di Kokoschka che, a Dresda, assiste al Flauto magico con al fianco, nel palco, il simulacro di Alma, fra i commenti scandalizzati del pubblico, è degna del più paradossale e spassoso Gogol’ (non a caso citato, per il tramite di un racconto di Landolfi, già nel capitolo iniziale).

Ma forse l’apice del libro è nella figura di Hulda, «una deliziosa regazzetta sassone» (che lui, manco a dirlo, chiamerà con un altro nome, Resel: “Teresina” cioè, in dialetto viennese), la quale, da cameriera, aiuterà il padrone a far indossare alla bambola i vestiti lussosi che lui le ha comprato, a infilarle la biancheria intima che Alma stessa ha lasciato nei cassetti di casa nell’andarsene via «senza neanche far le valige», fino al momento in cui il goco di sostituzione raggiungerà la sua – prevista, ma non per questo meno umanamente e poeticamente dolorante – acme, e Hulda/Resel darà il calore della sua carne al replicarsi del miracolo di Pigmalione. E il simulacro? Uscirà di scena, e nel più tragicomico modo (qui, è il Camilleri giallista, a brillare), ma lasciandoci in bocca il gusto amaro di aver assistito, una volta di più, alla risibile, penosa commedia della umana capacità di autoingannarsi, e soffrire.

(Andrea Camilleri, La creatura del desiderio, Skira, 2013, pp. 144, euro 14,50)