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“Scimmia nera” di Zachar Prilepin

di Martina Baratta / 4 aprile

In Scimmia Nera (Voland, 2013), romanzo che ha consacrato Prilepin come esponente della nuova generazione di scrittori russi, il protagonista è un giornalista che si perde in una strana inchiesta sulla violenza infantile: esistono infatti dei bambini killer tenuti in osservazione nei sotterranei di un laboratorio, bambini in grado di uccidere senza pietà perché incapaci di comprendere la violenza, e quindi ritenuti delle vere e proprie risorse.

L’inchiesta diventa per il protagonista un mistero da risolvere e per venirne a capo va alla ricerca di chiunque possa fornire informazioni, incurante – o quasi – della propria vita privata che nel frattempo crolla miseramente sotto i suoi stessi occhi.

In un contesto in cui il degrado sembra farla da padrone, Prilepin ci descrive città piene di case fatiscenti e di alcolizzati, stazioni in cui si aggirano prostitute, poliziotti violenti e corrotti, amanti, figli, ragazzi rabbiosi che diventano assassini feroci.

Queste immagini ci vengono restituite da una narrazione scarna, a tratti scabrosa, precisa nelle descrizioni al punto da riuscire a catturare situazioni che risultano vivide anche attraverso le pagine, in una storia che da subito si presenta come una denuncia e offre numerosi spunti di riflessione su un argomento ben più vasto, ovvero l’origine del male. Il tema della violenza viene trattato senza alcuna censura, e sebbene possa risultare delicato dal momento che riguarda i bambini, Prilepin non si fa troppi scrupoli ad analizzarlo con sguardo critico e asettico, approccio a cui deve essersi abituato grazie al mestiere di giornalista. Il suo background culturale e professionale lo porta a raccontare una storia che, tappa dopo tappa, cerca di arrivare a una conclusione in grado di spiegare che cosa sia effettivamente la violenza, da dove proviene, perché esiste e quali sono le sue forme effettive.

Della lettura colpisce il linguaggio vivido e innovativo, realistico, così come colpisce la mancanza di sentimenti e il loro sviluppo: i rapporti che il protagonista intrattiene con le donne e con i figli sembrano irreali, quasi un passatempo subordinato alla sua inchiesta che sfocia quasi nell’ossessione: c’è una freddezza di fondo che non coinvolge il lettore sul piano emotivo ma lo catapulta in una realtà tangibile e fa spavento anche solo l’ipotesi che qualcuno abbia potuto pensare di utilizzare i bambini come implacabili macchine di morte.

Nonostante i nomi russi siano impossibili da pronunciare – e da ricordare –, Prilepin propone uno stile che rimane impresso, sebbene risulti crudo e quasi violento: complice la trama, trascina direttamente dallo stomaco in un mondo in cui sembra non sia rimasto nulla di rassicurante, o di bello, dove anche l’innocenza di un bambino si perde nel sangue.

(Zachar Prilepin, Scimmia nera, trad. di Niccolò Galmarini, Voland, pp. 271, euro 15)