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“Notturno indiano” di Antonio Tabucchi

di Giulia Usai / 7 maggio

La verità è che, terminato Notturno indiano, non si è nemmeno sicuri di averlo letto veramente, se con lettura intendiamo l’atto concentrato e consapevole di affrontare un testo mantenendo una certa lucidità d’interpretazione. La sensazione è piuttosto quella di aver fluttuato in un’atmosfera onirica, tenuti per mano da una guida confusa che ci ha sempre dato le spalle, mentre obbedienti e curiosi ci rassegnavamo a seguirne gli itinerari. Al torpore segue un brusco risveglio, e alla fine del viaggio resta il ricordo di un’India sfocata: l’Asia del Sud, al contrario di tanta letteratura che vorrebbe entrarle nelle viscere raccontandola nella sua interezza, serve qui da falsa pista per cercare qualcuno, e nemmeno ha più importanza come luogo, in sé, perché permane soltanto nel sapore di notti allucinate immerse nell’umidità tropicale. 

Il romanzo ruota attorno a un pretesto: ritrovare l’amico del protagonista Roux, un uomo di nome Xavier, che «quando sorride sembra triste» e si è perso, tempo prima, da qualche parte in India. Per cercarlo siamo costretti a seguire gli spostamenti di Roux tra Bombay, Madras e Goa, passando lungo tempo in camere d’albergo, ospedali, ristoranti, cuccette di treno e sedili di autobus. Durante questi percorsi ci capita di fare alcuni incontri, ma hanno tutti una consistenza spettrale: una prostituta che ha amato Xavier, ma ora non sa dove sia, un profeta jainista dall’aspetto scimmiesco che legge il passato e il futuro, ma non riesce a vedere in quello del nostro accompagnatore, Alfonso de Albuquerque che fu il primo duca di Goa nel sedicesimo secolo e appare in sogno per rivelarci che l’amico cercato non esiste, è solo un fantasma.

Mentre continuiamo ad assecondare i suoi cambi di rotta, ci rendiamo conto con sempre maggiore consapevolezza che Roux, al quale ci siamo affidati, è un investigatore senza bussola e senza piani, intento a dare retta a stimoli disordinati, la cui determinazione nel ritrovare Xavier sfuma sino a diventare un alibi per giustificare il suo moto inquieto. Ormai assuefatti ai fallimenti di un’inchiesta dai risvolti sterili, le ultime pagine ci suggeriscono un’intuizione inaspettatamente lucida per risolvere il caso, risvegliarci dallo stordimento e porre fine a questo concitato peregrinare nella notte indiana.

Notturno indiano è stato pensato da Tabucchi come una guida per «amanti di percorsi incongrui», e a leggerlo ci si lascia trascinare davvero, in questi percorsi, a patto di accettare sin da subito le singolari condizioni del viaggio: vagare nella semi-oscurità tra sentieri incoerenti e accettare di scavare nell’oblio della nostra mente, senza resistenze.

 
(Antonio Tabucchi, Notturno Indiano, Sellerio, 1984)