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“Stati di grazia” di Davide Orecchio

di Anna Quatraro / 18 giugno

La luce degli «stati di grazia» del libro di Davide Orecchio risuona per tutto il romanzo ma è ancor più forte quando ci viene spiegato che cosa siano questi stati di grazia, il far riemergere ciò che sta sotto la marea della storia. Scavo psicologico non fine a se stesso, finalizzato a un raffinato e limpido gioco di identità e specchi, con l’intento di mostrare, con un metodo quasi scientifico, non la logica esatta della storia, ma le piccole crepe, i maremoti sotterranei che muovono le formule e i documenti ieratici della storia. Animare le fonti non solo di storia, ma di umana pietà per le conseguenze tragiche della storia.

La lingua ricercata e una certa visionarietà progressiva regalano ai personaggi il coraggio di darsi e disporre i propri drammi come disegni antichi, copioni irreali che si nutrono uno dell’altro. La forma ha un peso specifico, che si assume la responsabilità del docere, ma sa anche confrontarsi con i testi e in seconda battuta con i bisogni endogeni del testo, infatti questo non è un romanzo neutrale, o naturale, fatalista. Per sciogliere i nodi della storia, Orecchio ne sceglie segmenti già noti con grande rispetto verso la reticenza, giocando sui detti e sui non-detti e stili distinti per ogni personaggio.

Si tratta di racconti costruiti uno sull’altro, che mano a mano misurano le sconfitte di esuli e di poetesse che hanno creduto alla rivoluzione argentina, drammi comuni e minimi rispetto alla storia. A dare sapore, la mise en abyme dentro la quale si perdono le vite di rivoluzionari la cui partecipazione impone il prezzo della resistenza a se stessi e a una visione della storia, quella ideologica, insufficiente rispetto alla natura camaleontica della vita e alla capacità affabulatoria e di riconversione del potere. Il discorso articolato sulla rivoluzione argentina è attento nel costruire monologhi di coscienza che non trascurano l’alfabeto dei sentimenti, rispettando l’impossibilità di scotomizzare la storia e affermandone la sfuggevolezza in divenire.

La ricerca del sentimento politico prima dell’impegno è un tema sul quale i personaggi misurano le proprie azioni. Aurora e Matilde Famularo non sono solo infelici. La rivoluzione per Aurora è il centro nevralgico della sua rabbia, ma anche quel macigno che le impedirà di sentirsi libera di amare la compagna. Per una fideistica coerenza verso la rabbia, si rende prigioniera di un amore non corrisposto, immolandosi prima per gli ideali che la renderanno il giullare di un gruppo di contadini che non comprende né la virulenza dei suoi versi, né la sua fragilità. Aurora è una donna più capace di distinguere le sfaccettature della realtà argentina, dopo l’amore con Diego Wilch, il giovane medico convinto di salvare i contadini che lavorano nello zuccherificio, fugge con costanza i legami duraturi.

La rivoluzione argentina è narrata grazie ai tentativi dei personaggi, che sono umani e armati più della rabbia, dei sentimenti, che di conoscenze ideologiche praticabili. Tanto che Diego arriva a confessare al sociologo che il suo marxismo, alla resa di ciò che gli ha trasmesso la visione delle vittime, è povero di salvezza e alimentato di logiche di necessità non meno disumane del capitalismo. L’idea è sempre quella di mostrare i chiaroscuri con toni tersi, non semplicisti, ma tesi a ricercare sintesi storiche sia nei personaggi che nelle sottotrame. Diego non è puro ma conserva la sua tenerezza, rinuncia al destino dell’eroe, secondo l’adagio brechtiano. Dopo aver lasciato Aurora, che intanto ha conosciuto Arturo Coloccini, uno studente suo coetaneo, comprende le illusioni della giovinezza, senza le quali forse non avrebbe saputo vivere, che riflettono una foscoliana incapacità di riposo, una nervosa restless politica che esige impegno. Non è una furia per la perdita di un’armonia classica, quanto lo smacco di fronte all’amore a riportarlo a una condizione più umana. Il sociologo tenta di fare sintesi di queste contraddizioni, adeguando margini, dubbi, crepe del fenomeno rivoluzionario a una versione dei fatti narrabile. Fra i meno convinti spicca Jossy Tossi, che incarna un modo bonario e godereccio di vivere il periodo rivoluzionario.

Oltre che la rappresentazione storica, si dovrebbero leggere le pagine di Orecchio per la ricerca espressiva, la finezza nell’unire i punti di convergenza fra i destini dei protagonisti, una collazione di fallimenti, un diluvio di desideri, e di immagini filmiche. Fallimenti che non sono definitivi, ma che riflettono l’immagine delle «città distrutte» – titolo del libro d’esordio di Orecchio, pubblicato per Gaffi –, di quelle città che non hanno perso il senso della struttura, e della coralità, che ricordano la rete dei ricordi, della memoria che si amplifica, che deforma i personaggi: essi sono più della somma di ricordi e di volute dimenticanze. Conservare, prima che conversare, cercare il ricordo: così quella di Orecchio converge verso una personale etica del racconto.

Se come storico sa dar voce ai racconti orali, come narratore sonda le coscienze, pulendo le scorie che impediscono di guardare «gli spietati occhi della memoria», finendo per stupire per la presenza di una struttura delicata che ricalca la metafora presa a prestito da Patrice Vuillarde, la dinamica di abbandoni, un tocco di spontanea grazia.


(Davide Orecchio, Stati di grazia, Il Saggiatore, 2014, pp. 320, euro 16)