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Libri

“La vita in tempo di pace” di Francesco Pecoraro

di Cristiana Saporito / 3 luglio

Certi romanzi non si possono immaginare. Anche depositando negli occhi mille acri di storie e d’ispirazione, rassicuranti scorte di sentito dire, di odori strappati ad altre pagine. Certi romanzi vanno esperiti. Testati su strada. Sono il frutto narrativo di ciò che ci attraversa, prima ancora che l’inchiostro li inchiodi.

E sono coetanei dei loro autori. La vita in tempo di pace (Ponte alle Grazie, 2013) ha sessantanove anni, anche se la sua pubblicazione risale a pochi mesi fa. Tanti quanti veleggiano nel nome di Francesco Pecoraro, scrittore finalista con questo titolo del Premio Strega 2014.

Suo alter ego assoluto è Ivo Brandani, ingegnere “quasi anziano” recintato nel limbo di un aeroporto egiziano, in attesa d’involarsi verso casa. Non è lì per caso, per annacquare le sue ansie nel Mar Rosso, ma per un progetto che ha dell’astruso: rifabbricare la barriera corallina, in forma sintetica. Escogitare un’imitazione dell’irripetibile, puntellare un paradosso. È lì per aspettare, senza altri imperativi. E quel ritaglio di pareti senza patria è l’occasione per snocciolare il bandolo del suo passato. E non solo il suo.

Una parentesi sdraiata lungo settant’anni, l’algoritmo di una stagione senza guerra, almeno non dichiarata. Il romanzo è tutto lì, sgorgato, custodito in un viaggio a ritroso, uno slalom di tappe esistenziali infarcito di aneddoti e visioni, del planisfero completo delle opinioni di Brandani. Dispensatore di una vera Weltanschauung. Il nerbo pulsante è il Brandani-pensiero. Che prospera ovunque.

Nell’infanzia dominata da un Padre ombra onnipresente. Padre/legge/Terra. Padre/gelo artico spalmato sullo spirito, contrapposto alla Madre abbraccio di Mare, conforto evaporato troppo in fretta a cui viene consacrata una porzione di racconto vestita da epistola. Nel tempo del lavoro, durante una biblica alluvione nella Città di Dio, con cui Roma entra epicamente in campo, senza essere mai menzionata. Gli argini tremano fino a esondare; anche quella è lotta, si guerreggia ogni giorno contro la propria impotenza, come Brandani nuovo Responsabile dell’Ottavo Distretto, che affronta disarmato la Natura pluviale, potenza divina che scroscia anche sugli atei. Istituzioni stracciate, come il piccolo preposto.

Nel tempo del riposo, immerso nell’Isola greca anch’essa innominata, preistorica purezza di rocce stuprate da troppi piedi di uomini, come se anche quella fosse battaglia, mai consensuale. Una follia a senso unico senza armistizi, nella foga di chi oltraggia i fondali per una cena di pesce. Egoismo vorace che ammala lo sguardo, anche quello di Brandani, così stanco e gonfio di immagini. L’ingegnere ormai è un deserto d’asfalto e amarezza. Il corpo del disincanto, che vuole stare comodo, che sbraita contro gli altri per qualsiasi inezia, che ha sempre nuotato nel conflitto e che nella sua ultima stagione galleggia nella rabbia del perduto, di una vita che scivola malgrado le sue mani la afferrino ancora.

Scrittura sontuosa quella di Pecoraro (anche poeta), sardonica, possente, sicuramente rara. Perfetta per dipingere la parabola del singolo e quella di una nazione, come avvenuto di recente nel romanzo di Alessandra Fiori Il cielo è dei potenti o in quello di Walter Siti Resistere non serve a niente (a proposito di Strega). C’è l’Italia smargiassa e panciuta degli anni Sessanta, ci sono le sue utopie studentesche, il ritorno all’ordine con in bocca una fame diversa. E poi scatta l’involuzione del nuovo millennio, un universo sghembo in cui è impossibile incastrarsi. Si resta a una spanna, incapaci di prendere parte, di ingranare un po’ il gioco. E allora si valuta, si smonta, si decostruisce un sistema sgradito, per capire quale anello è saltato, quale giuntura è troppo lenta per far ruotare il meccanismo. Con una mente ingegneristica, come quella di Brandani/Pecoraro, attratta dagli aerei in quanto macchine perfette, figlie di una matematica applicabile a ben poco di umano. Non c’è materia nuova, trama sconvolgente, artificio diegetico fuori dal comune.

C’è un percorso immenso, una distesa (forse troppo) densa di eventi, per dimostrare abilmente un teorema fin troppo chiaro, dispiegato con indubbia maestria appena all’inizio: «Noi viventi siamo troppo caotici, siamo conformazione, non forma, abbiamo contorni a-geometrici, mutevoli, indeterminati, come quelli delle nuvole, come i confini delle nazioni […] Come pretendiamo che ci sia ordine se siamo ciò che resta di un’esplosione?» E tra queste parole, anche solo per la loro bellezza, vale la pena raccoglierne i pezzi.


(Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace, Ponte alle Grazie, 2013, pp. 512, euro 16,80)