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Libri

“Una vita violenta” di Pier Paolo Pasolini

di Matteo Chiavarone / 2 novembre

C’è un qualcosa che mi ha sempre legato alla vicenda umana di Pasolini. Che sia qualcosa di “geografico” – l’infanzia monteverdina e il trasferimento al Divino Amore, ai piedi di Ciampino – “culturale” – le lezioni universitarie del professore Leonelli – e “personale” – la passione per la politica, il cinema e la letteratura – è difficile dirlo. Mi vengono in mente le mattine passate al cimitero acattolico di Testaccio, prima ancora della folgorante lettura de Le ceneri di Gramsci. O le discese a piedi da piazza San Giovanni di Dio a Donna Olimpia, in quella via Ozanam – dove ancora, al numero civico 134, è possibile fare quattro chiacchiere con il poeta, pittore e “ragazzo di vita” Silvio Parrello –  che rappresentava la strada da percorrere per arrivare a scuola, Liceo Scientifico Morgagni, a Villa Pamphili, il polmone verde della mia infanzia, o a “Elastic Rock” a via dei Quattro Venti, uno dei migliori negozi di dischi della città. O, ancora, il viaggio, successivo, a Casarsa della Delizia con Dario, amico e “flaneur”, il “passaggio” sul Tagliamento e attraverso i filari d’uva, l’incontro con Vendrame o con il parroco del paese, “costretto” ad ospitarci nella scuola elementare. Infine penso alla “scoperta” di Rebibbia e Casal de’ Pazzi. Era il 2004, o giù di lì, e devo ringraziare una ragazza che, abitando dopo questo grande viale che dalla Tiburtina scende verso via Ojetti (strada che anni dopo chiamai “degli alberi numerati”), mi condusse, forse inconsciamente, in quei luoghi che tanto hanno influito nella mia vita. Rebibbia diventava, dopo essere stata per anni soltanto il capolinea di una metropolitana quasi mai presa, un quartiere che mi si presentava davanti agli occhi in tutti i suoi chiaroscuri. Il reticolato di strade, le case, i negozietti popolari, il gigantesco viavai di anime. Il grande carcere. La casa di Pasolini raggiunta per caso.

In quel periodo leggevo e rileggevo i poemetti de Le ceneri di Gramsci. Sentivo il rumore della “scavatrice”; collegavo Pasolini a Bertolucci – insieme a Malaparte uno dei “lasciti” universitari più interessanti –, a Pascoli e alla sua Patria “messa a fuoco” da una trebbiatrice e, infine, a Guccini e De Andrè, autori delle colonne sonore della mia adolescenza. Poi arrivò Una vita violenta. L’approccio con il Pasolini “narratore” non passò quindi con Ragazzi di vita ma con lo stesso “acre, violento, fortissimo” odore di miseria. Era la miseria italiana, quella non conosciuta dalla mia generazione: i baraccati, l’odore di sporcizia, i panni appesi alle finestre senza balconi, le squallide periferie, le estati roventi, i palloni che rotolano costantemente sull’asfalto. Il costante senso di morte. L’ossessivo rumore della “Legge” che si presenta ora come braccio violento, ora come impedimento burocratico. I corpi venduti per poco, il senso di “accattonaggio”, la città che si trasforma lasciando ai margini i suoi figli peggiori.

Il sottoproletariato si presentava ai miei occhi in maniera ancora più forte che in La terra di lavoro o nel crudo Accattone. Tutto andava avanti a morsi, a strappi disperati.

Tiburtina. Casal de’ Pazzi. Rebibbia. Conoscevo quei luoghi. Li stavo vedendo, li toccavo con mano. Miseria “reale”, morale, fisica, umana. Ai margini della storia c’era la vicenda di Tommasino Puzzilli e io seguivo con gli occhi quei confini. O meglio, cercavo di farlo. Tutto era diverso. Non la chiesa e il muretto, erano quelli. Non la radura oltre il viale dove ancora oggi transitano pecore e pastori – provenienti probabilmente dall’Est europeo – o le case abusive sicuramente condonate. Non alcuni bar col sapore antico di caffè corretto. Ma tutto il resto. Un quartiere gradevole che si affacciava al nuovo millennio conservando il senso di romanità ma, al tempo, stesso quello di accoglienza per i molti migranti che la abitano. Un quartiere “comodo” perché, inserito in una conchetta tra le caotiche e sature via Tiburtina e via Nomentana, riusciva e riesce a mantenere la sua tranquillità grazie ad una “corporatura” a misura d’uomo: svariati esercizi commerciali non “invasivi”, facilità di trasporti (con la fermata metro a pochi passi) e di parcheggio e, tutto sommato, anche se mal tenuto, molto verde intorno a sé. La periferia che va verso il centro, parafrasando lo stesso Pasolini.

Tommasino Puzzilli era un personaggio che non potevo conoscere. Eppure mi era familiare. Come se la città di Roma ne mostrasse la sua immagine sui muri o sulle pareti dei quartieri nati nel Novecento. Non solo quelli delle borgate intorno al Raccordo Anulare ma anche quelli di quartieri ora “borghesi” come la Garbatella o San Paolo, il nucleo popolare di Piazza Bologna o Don Bosco e finanche le centralissime Porta Portese, Testaccio o Trastevere. Sentivo che c’era qualcosa in Tommasino che non era una sua peculiarità. I continui movimenti di quest’anima apolide mi rimandavano al battere delle officine – quelle ai piedi del Monte dei Cocci ora locali snob della movida romana? –, al brulicare dei mercati che ora vogliono ricoprire o all’esistenza di quegli strati sconosciuti – o che semplicemente non vogliamo vedere – di società che vive sotto il viadotto della Magliana, nei sottopassaggi della Stazione Termini, negli umidi parchi delle consolari o, ancor peggio, tra gli alberi soffocati sulla riva del Tevere.

Pasolini insiste con quel «mucchio di catapecchie sulla strada tra Pietralata e Montesacro, poco prima del punto dove la cloaca del policlinico sbocca nell’Aniene» perché sa di quanto il luogo influisce sull’esistenza di un essere umano. Ed è per questo che cerchiamo le nostre case dove tutto ci sembra più familiare, più palpabile, più bello.

Tommasino non può decidere. Non decide niente e quando pensa di poter agire a modo suo, prende la strada sbagliata, quella peggiore.

C’è qualcosa di “istintuale” – o ferino –in lui. Il suo corpo e la sua mente sono spinti prima ancora che dalla fame, dalla forza parossistica del sesso. Il giro delle puttane, disegnate quasi come grottesche caricature felliniane: «erano tracagnotte tutte due, con la pancia che parevano incinte, le cianche corte e grosse, due facce nere e pelose con la fronte bassa da scimmie e la borsa in mano». Il vendersi per poche lire a reclusi omosessuali nei cinema o intorno alla stazione. Il sesso non è grazia e bellezza ma violenza o, nei migliori dei casi, azione meccanica. Un po’ come la politica, anch’essa “prerazionale” (basti pensare all’avvicinamento al Movimento Sociale) ma mai sfruttata, da parte dello scrittore, in maniera propagandistica.

La tragedia messa in atto in tutti i particolari trova però il culmine in questo libro perché il protagonista si avvicina alla felicità, la sfiora. Ottiene una casa popolare e trova una ragazza, Irene, in cui affiora un refolo leggerissimo di innamoramento. Poi il crollo con la scoperta di una malattia, la tubercolosi, che lo costringe al ricoveramento. L’amicizia con gli infermieri e con altri malati diventa il modo per scoprire la lotta sociale, il comunismo. Fino alla catarsi finale con la morte eroica di Tommasino, intento a salvare una giovane donna dalla forza della natura – la piena del fiume – decisa a scaraventarsi contro le baracche limitrofe.

E poi quel finale del libro. Semplice, icastico e durissimo. Mi ricordo le ultime parole, mi sono rimasta di fronte agli occhi per mesi. Dovrebbero essere così: Buonanotte Tommasì… Solo questo. O qualcosa del genere.