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“Devozione”: a tu per tu con Antonella Lattanzi

di Luca Tortolini / 19 novembre

Con questo libro di esordio Antonella Lattanzi mette in scena la devozione che ci siamo scelti coraggiosamente di seguire. Perché si tratta di una scelta. La devozione della protagonista per l’eroina. Una devozione che risale, in adolescenza, alla lettura di Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Le ragioni della scelta sono tantissime o sono nascoste. Le azioni ci portano verso quella scelta. Si percorre quella strada. Quando si guarda indietro, si dice che non poteva andare diversamente. Perché quella era la scelta, quelle erano le azioni che ci hanno portato verso quella scelta, quella e solo quella, la Devozione.

Devozione parla una lingua universale, perché anche se l’argomento dell’eroina è specifico e porta un’infinità di problematiche, il rapporto di fedeltà che può avere ad esempio l’artista con la sua arte o il religioso con la sua religione, ha una strada che possiamo considerare simile. Possiamo dire che l’eroina sta a Nikita come la scrittura sta a Antonella Lattanzi?
Come hai detto tu, l'intento del mio libro era di non raccontare solo l'eroina, ma di raccontare, attraverso la dipendenza per eccellenza, quella da eroina, tutte le dipendenze. Non ci sono gradi di dipendenza o dipendenze più o meno nobili, secondo me: la dipendenza è il passaggio dallo stare-bene-con (cioè la devozione) allo stare-male-senza. Durante i cinque anni di ricerca per il mio libro, la cosa che mi ha colpito di più è stata quanto io – noi – sia simile a un eroinomane: ci sono momenti, nella nostra vita, momenti lunghi o brevi, in cui una sola cosa risucchia tutto il resto. Ognuno di noi ha un buco personale in cui la realtà, la vita può cadere e scomparire. Detto ciò, la dipendenza da eroina è, per i suoi effetti, tra le più feroci e le più totalizzanti. Dire, quindi, che l'eroina sta a Nikita come la scrittura sta ad Antonella Lattanzi è un po' azzardato: voglio dire, la dipendenza dalla scrittura permette, se si vuole, un rapporto creativo con la cosa da cui si dipende; l'eroina no. Quella per la scrittura, per la lettura è una dipendenza, certo, ma soprattuto una devozione: l'attimo in cui stai bene esiste e, a seconda di come scrivi, come leggi, di quanto ti impegni, quanto ti dài: può essere più o meno lungo. La dipendenza da eroina invece è tutta buia.

Come sono arrivati i personaggi di Nikita e Pablo?
Nikita presenta degli aspetti di congiunzione con me – Nikita ama la danza, la scrittura, la lettura, viene da Bari – e degli aspetti di disgiunzione – la famiglia, i genitori, l'eroina, l'adolescenza, l'infanzia, la vita. Ho deciso di creare Nikita così anche perchè, trattando un tema così distante dalla mia esperienza vissuta, intima, com'è l'eroina, avevo bisogno di appigli reali, intimi appunto. Nikita però non è la semplice somma di alcuni aspetti di me più alcuni aspetti inventati: è un personaggio, la persona di un romanzo, che è cresciuta di parola in parola; che ho conosciuto sempre più quanto più procedevo nella lavorazione del libro. Non è arrivata, dunque. L'ho cercata. È cresciuta ed è cambiata fino all'ultimo giorno di lavoro. Per Pablo il discorso è lo stesso. Ha qualcosa di alcune persone che ho conosciuto. Ha qualcosa di completamente inventato. Un romanzo è davvero il luogo in cui, quando tutto procede per il meglio, ti sembra di essere un medium, di trascrivere qualcosa che viene da altri luoghi. Naturalmente, però, non c'è nulla di magico o di romantico: è l'impegno, la fatica, la dedizione alla scrittura che mette lo scrittore nella condizione di credere, davvero, ai personaggi che racconta.

Fin dalle prime righe si sente che siamo nelle mani di una esperta dell’argomento. Come hai studiato l’eroina e la tossicodipendenza?
Credo che uno scrittore debba sempre e solo scrivere di ciò che conosce. Per questo, quando ho deciso che volevo parlare di eroina, ho deciso che dovevo studiarla. Come dicevo prima, sono stati cinque anni di studio, di scrittura e di lettura. Ma non solo: avevo visto l'eroina da adolescente, avevo assistito al ritorno dell'eroina a metà degli anni '90 (più di 1.500 morti per overdose da eroina solo nel 1996), e avevo visto che nessuno ne parlava. Allora, e adesso. Dunque ho deciso: volevo raccontare. Lo scrittore è una persona, secondo me, che pone delle domande, che non giudica ma racconta, mette il lettore in grado di vedere, di vivere, mondi anche totalmente lontani da lui. Scrivendo Devozione, il mio intento era proprio questo. Ho passato cinque anni a fingermi eroinomane e malata di epatite c, andando nei sert, nelle comunità di recupero, a Secondigliano dove si vendono eroina e cocaina per strada, a Bologna, e negli ospedali, e tra gli eroinomani. Per vedere come si vive da eroinomane, ma anche come sei percepito dai medici, dalla gente, dalla società.

Per ritornare allo scrivere, qual è il tuo metodo di scrittura? 
Dedizione, impegno, fatica, sudore. Scrittura, riscrittura, lima, taglio. Prima di tutto, lettura. Leggere è più di tutto. Dice Walter Siti che la lettura è la vera attività alta, artistica. La scrittura è una sorta di effetto collaterale della lettura. Vero, verissimo. Il mio metodo è proprio questo: leggere il più possibile, leggere come legge chi vuole imparare a scrivere, quindi criticamente e spiando lo scrittore. E poi scrivere, ogni giorno, con dedizione appunto. Con fatica. Ma anche e soprattutto con umiltà. Se non si è umili non si può mai migliorare. L'ispirazione non esiste. O meglio è una cosa che si impara: l'istinto creativo si guadagna ogni momento, a ogni parola, con lo studio, con la scrittura, con la lettura. Cerco di fare in modo che tutto – personaggi, parole, ritmo, linguaggio, stile, trama, ambientazione, atmosfera, luoghi, non detti – in un romanzo, sia protagonista allo stesso tempo e nello stesso modo: cerco di cambiare stile, parole, ritmo a seconda del personaggio, del momento raccontato. Credo che ogni momento di un libro abbia bisogno della sua propria atmosfera, del suo proprio stile, delle sue parole. Mi piace disseminare il romanzo di oggetti che hanno un valore simbolico, e che parlano delle sensazioni che provano i personaggi: se una bottiglia di olio cade e si rompe mentre due personaggi stanno litigando, forse vuol dire che i personaggi si sentono rotti dentro. Dico forse perchè secondo me poi è il lettore a dover tirare le somme, a riempire il romanzo. Se lo si riempie di dettagli inutili, poi cosa resta a un lettore? È giusto lasciargli il suo spazio d'azione, perchè sia creativo anche lui, nel romanzo. Lo senta suo. Lo viva.
E poi mi piace che quando si scrive non si dica: tizio era contento. Ma che si faccia vedere che tizio è contento tramite quello che fa, che dice, come si muove. Come interagisce con l'ambiente. Quasi che il romanzo fosse una sceneggiatura cinematografica. Mi piace creare immagini nel lettore, fargli vedere il mondo che sto scrivendo. Mi piace far parlare un animale, o rendere vivo un muro, una sigaretta: non perchè il romanzo diventi una favola, ma per il contrario: se una strada di montagna curva e noi, in auto, andiamo dritto, cadremo a valle, e moriremo. Dunque, anche gli oggetti inanimati influiscono su di noi, sono attivi nella nostra vita: per rendere questa realtà in un romanzo, magari è utile, in un dato momento, a piccolissime dosi, rendere viva quella realtà. Come dicevo: non per creare un romanzo favolistico, fantascientifico, ma, al contrario: per rendere la realtà in tutti i suoi aspetti, che non sono solo quelli che possiamo esperire coi cinque sensi.

Oltre la gioia della pubblicazione, cosa ti ha portato Devozione? La tua vita è cambiata?
La mia vita è cambiata perchè viaggio molto, per andare a presentazioni e festival. È cambiata perchè sono felice di aver scritto un romanzo, di averlo pubblicato con l'Einaudi – la casa editrice dei miei sogni di bambina – e soprattutto che la gente lo stia accogliendo con tanta passione. Sono felice quando i lettori mi scrivono, quando mi dicono che Devozione gli ha permesso di scoprire qualcosa in più di sé, delle loro dipendenze, della loro vita. È cambiata perchè la critica ha accolto molto bene il romanzo: e questo non c'entra con la sensazione narcisistica di vedere un proprio lavoro riconosciuto, ma con quanto puoi imparare da una lettura critica di quello che hai scritto, e dalle persone, dagli scrittori, dai giornalisti, dai critici, che incontri dopo che pubblichi un romanzo.

Stai scrivendo un nuovo libro? Ci puoi dire di cosa si tratta?
Sto scrivendo un nuovo libro, sì. Però è un segreto, per adesso. Ci sto lavorando tantissimo, da luglio. E sono molto contenta di scriverlo, di lavorarci, di impegnarmi in un nuovo progetto: e, in particolare, in questo progetto. Il nuovo libro dovrebbe essere pubblicato entro il 2011: è tutto quello che posso dire ora, anche per correttezza. Appena potrò, dirò qualcosa in più.


Antonella Lattanzi è nata a Bari nel 1979. Vive a Roma. Devozione (Einaudi, 2010) è il suo primo romanzo.