“La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano

di / 29 settembre 2010

Andare al cinema per vedere La solitudine dei numeri primi, nella versione cinematografica di Saverio Costanzo, mi ha costretto, per forza di cose, a ripensare al libro di Giordano. Un’opera, questa, su cui si è discusso moltissimo e che, volenti o nolenti, ha diviso i lettori. Per molti un capolavoro, per altri un romanzo acerbo incapace di lasciare alcuna luce nel panorama letterario italiano. Io, che sono stato forse tra i primissimi lettori, ho sempre pensato che nessuno dei due giudizi fosse quello appropriato. Premetto anche che il film, uscito da qualche settimane nelle sale, mi ha tutto sommato convinto anche perché il regista ha dovuto manovrare una materia nient’affatto semplice senza contare le inevitabili aspettative del pubblico. La parola “semplice” non è messa a caso, perché è proprio la “semplicità” del libro a dividere coloro che si sono approcciati, e sono moltissimi, a questo testo.

La solitudine dei numeri primi non è affatto un libro “semplice”: ma non perché l’autore tenti di complicare l’intreccio narrativo o il linguaggio, quanto invece per tutta la carica di “inespresso” che assorbiamo tra le pagine del libro. A partire dal titolo, indovinato e soprattutto riuscito, si intuisce che ci stiamo rapportando a qualcosa di importante. La storia, anzi le storie, dei due ragazzi si intrecciano in maniera quasi ossessiva tanto che ci sembra vedere con i nostri, e con i loro, occhi i drammi che stanno vivendo. Ci aspettiamo moltissimo, dimenticando forse che il dolore e il “mal di vivere” non sono sempre conseguenti ad una causa. Non si può spiegare ogni cosa con un avvenimento, un fatto, un incontro. Se i due ragazzi sono “numeri primi” vanno lasciati nell’unicità intrinseca al simbolo che gli viene dato. Così sul piano linguistico. Giordano scrive bene, ce lo fa capire subito, ma fa il minimo indispensabile, tralascia quel qualcosa in più o quel salto in avanti capace di creare emozioni. Attenzione però, il mio giudizio non è affatto negativo, o quantomeno “soltanto” negativo. E qui torno alla “semplicità”: lo scrittore, tra l’altro brillante e simpaticissimo, fa una operazione quasi chirurgica. Pulisce e ripulisce la lingua per creare quasi un “verso” proprio col ritmo anglosassone e le descrizioni “italianissime”. Una cadenza regolare. Non fa un errore: il libro scivola via come un film o un romanzo americano. Poi inserisce un titolo ad effetto ed efficace e dipana la sua storia. Un ritmo incalzante fatto di continui battere e levare. I due ragazzi al momento della tragedia, i due ragazzi da adolescenti, i due ragazzi ormai diventati un uomo e una donna. Mescola, raddrizza, assottiglia. Causa, conseguenza, causa, conseguenza. Raddrizza, riordina, decora. Perfettamente. Fare tutto questo non è affatto semplice, anzi. Ricordiamoci che si tratta di un’opera prima: un’ottima opera prima.

Il problema è che troppe luci sono scese su questo romanzo – comprese quelle inopportune del premio Strega – che rischiano di spegnere quella più importante: il talento di un autore capace, al primo romanzo, di colpire nel segno. O almeno di andarci vicinissimo. 

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