“Cronache della città capovolta”: intervista a Adele Costanzo

di / 3 febbraio 2011


Otto domande all’autrice per scoprire un romanzo originale e prezioso

Esce, in questi giorni, il romanzo di Adele Costanzo: Cronache della città capovolta, edito da Giulo Perrone LAB. Ho incontrato l’autrice per porgli alcune domande sul suo lavoro e sulla sua idea di romanzo.

1) Leggendo il suo libro sono rimasto molto colpito perché, mentre lo stava scrivendo, parlava di un romanzo. Ma Cronache della città capovolta è veramente un romanzo? E in che accezione?

Non vorrei adoperare un parolone, dal momento che mi piace stare con i piedi per terra, ma le “Cronache” sono piuttosto un antiromanzo. Mi spiego. Partendo dal presupposto che non è possibile ricostruire alcunché, che qualunque tentativo di ricomposizione letteraria della realtà non può mai giungere a compiutezza, ho fatto in modo che la storia di Mensuria si sbriciolasse in una quantità di microstorie. In pratica, i grandi mutamenti che avvengono nel piccolo paese immaginario sono visti sempre da un’ottica particolare, quella dei diversi personaggi che si trovano a viverli. Ciò consente una lettura, in un certo senso, modulare, nella quale l’ordine proposto ha carattere ipotetico e provvisorio.

Le diverse vicende hanno tuttavia un loro svolgimento, per cui al lettore non rimane – almeno è ciò che spero – quel senso di insoddisfazione che talvolta possono dare romanzi cosiddetti sperimentali.

2) Una citazione che introduce al testo è tratta da Calvino e dal suo “Le Città invisibili”. Quanto è collegato il suo libro a quello di Calvino? Il misterioso granducato di Mensuria, il vero protagonista del libro, non è forse un’altra città invisibile?

Certamente Mensuria, “città nella quale in teoria, ogni cosa è possibile” appartiene alla categoria delle città invisibili. Non è un caso che la mia scrittura sia nata proprio dall’imprinting emotivo ed estetico del gioiello di Calvino.

Con le città invisibili Mensuria condivide il destino di inesistenza, pur essendo collocata in un punto preciso dello spazio, e di astrattezza, pur essendo poi concretamente abitata e soggetta a mutamenti determinati da fatti reali e certi.

Mensuria è in realtà un non luogo, il posto in  cui si delega ad altri la responsabilità della propria identità. Tuttavia è un non luogo nel senso moderno del termine, in quanto pretesto per parlare della contemporaneità piuttosto che meta di evasione nell’astrattezza del sogno.

3) Il romanzo appare come una straordinaria narrazione metaforica. Ma a che cosa si riferisce? È la metafora di che cosa?

In effetti la cifra metaforica è preponderante nel romanzo. Sia nell’impianto generale che come scelta espressiva. Mensuria è metafora del mutamento, della refrattarietà del reale a qualsiasi conclusività, ma è anche metafora dell’incommensurabilità, della molteplicità, dell’assenza di compiutezza e di forma.

4) Il linguaggio che usa nel suo libro è curato, levigato, lavorato con molta attenzione. A volte si ha l’impressione di leggere una favola o una specie di filastrocca. In questi giorni, in cui i romanzi fanno a gara per sfoggiare, sempre in maniera molto ponderata, il maggior numero di parolacce o di invettive possibili, dove si rincorre il linguaggio parlato, libero, senza curarsi troppo della punteggiatura o dello stile, lei si rinchiude in un granducato e in una vicenda che si svolge a cavallo tra il ‘700 e l’800. Perché questa scelta così radicale?

La scelta di adoperare un linguaggio curato, levigato, nasce, oltre che da un gusto estetico personale e dalle letture di maestri dello stile come, appunto, Calvino o anche Le Clezio, da un bisogno di reazione di fronte al pressapochismo e al manierismo della letteratura contemporanea, specie quella cosiddetta emergente, ma non solo, e specie quella italiana.

Un malinteso senso del realismo, un’interpretazione acritica e modaiola dei maestri americani del Novecento sta conducendo alcuni scrittori, e quasi tutti gli aspiranti tali, basta sfogliare la home page di uno qualsiasi dei tanti siti di scrittura per rendersene conto, verso un nuovo tipo di manierismo. Se intendiamo per manierismo la predominanza dello stile sul messaggio, molti autori credono che la crudezza dell’espressione, accompagnata all’iperrealismo delle situazioni per quanto attiene ai contenuti, costituiscano una sorta di patente di autenticità, il viatico verso una sorta di verismo moderno e metropolitano. E ignorano, o dimenticano, che dietro il Verismo e il Naturalismo c’era una ricerca stilistica seria e autentica.

Sul piano dei contenuti, io sono fermamente convinta che il fantastico, e ciò che è ritenuto lontano, possano invece parlare molto profondamente della realtà contemporanea. Che uno sguardo straniato e obliquo possa vedere meglio le cose.

Su un piano espressivo, sono invece dell’idea che il mezzo adoperato necessiti il massimo rispetto e che vada adoperato prescindendo dagli stereotipi asfittici che vengono oggi proposti.

5) Mi dice ancora qualcosa sul suo modo di scrivere? È un’ insegnante, ha un marito, dei figli e perfino due cani. Quando riesce a scrivere? E che momento e luogo preferisce per farlo? Da che cosa parte per inventare una storia?

Io vivo di corsa e scrivo lentamente. Scrivo quando posso e dove posso, generalmente al computer perché mi dà la possibilità di sistemare i testi, di rivederli, e contemporaneamente di fare ricerche, come nel caso delle Cronache, sui tempi e sui luoghi. Ma porto sempre carta e penna con me. Ricordo di un racconto de L’isola di Paris, A casa di Elena – il libro di racconti precedente, sempre della Giulio Perrone editore (ndr) – che scrissi in buona parte nel privè di una discoteca, quando ero in gita scolastica e aspettavo che gli alunni si decidessero a tornare in albergo.

Per raccontare una storia parto da un’emozione, da un’intuizione, da qualcosa di molto piccolo che non so bene da dove provenga, ma che viene a visitarmi di tanto in tanto. Se lo stato d’animo che accompagna questa intuizione è positivo, so già che la storia nascerà, che mi sorprenderà e mi dirà cose che nemmeno sospettavo.

6) Nel testo si sforza di collocare nel tempo e nello spazio Mensuria e tutti i personaggi che l’hanno abitata: come bussole per orientarsi citi la rivoluzione francese, la vita di Napoleone, il trattato di Vienna, la battaglia di Marengo. Mi pare che in questo modo vuole tenere in equilibrio il lettore tra realtà e fantasia, tra racconto e finzione. È così?

È così. Il massimo della precisione storica, almeno spero, e l’astrattezza della fiaba: ho voluto giocare su questa contaminazione. Ho provato immaginare cosa può accadere durante un periodo di passaggio in una terra di passaggio. A sfumare la storia e a circostanziare la fiaba.

7) Ci parli dei personaggi che popolano Mensuria; il granduca, il ministro, il bel soldato francese, la duchessa, il filosofo, il prete, il giardiniere… tutti che raccontano solo un pezzetto di storia di Mensuria. Che rappresentano solo un frammento di un racconto più generale. Che ruolo hanno tutti questi personaggi? Mi ricordano i personaggi di Egar Lee Master, della sua Antologia di Spoon river.

Sono, appunto, come dici, dei frammenti. Sono alcuni dei personaggi che popolano Mensuria e che sono stati protagonisti di alcune delle storie che sarebbero accadute se Mensuria fosse esistita. Sono portatori di sogni e di progetti. Vincono, più spesso perdono; cercano la loro collocazione; amano, tradiscono e sono sinceri. Talvolta muoiono. Restano o se ne vanno. Si perdono e si ritrovano. Non hanno nome proprio e sono tipici come i personaggi delle fiabe eppure hanno un’identità. Sono portatori di un destino individuale eppure possono essere emblematici di un destino più universale, che è poi, sempre e comunque, quello della precarietà.

8) Alla fine credo che lo scopo finale del suo libro sia quello di farci credere – veramente – che il granducato di Mensuria sia esistito, anzi, che da qualche parte esiste ancora.

Certo che esiste. C’è un capitolo che termina con la frase, detta dal Filosofo: “Quant’è vero che esiste Mensuria”.

E ancora, per rimanere nelle citazioni, siamo tutti cittadini della “capitale mondiale del mutamento e dell’immobilità”. Di una città in cui le cose cambiano continuamente eppure si ripetono, perché poi, in fondo, le scelte e le azioni che le donne e gli uomini di ogni tempo e luogo compiono sono le stesse, in forme diverse e in contesti diversi, ma sempre dettate dalla ricerca incessante del senso e della felicità.

Bene. La ringrazio molto. Auguro a lei  e al suo libro la fortuna che merita.


Titolo: Cronache della città capovolta

Autore: Adele Costanzo

Editore: Giulio Perrone, LAB

Costo: 15 euro

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