Romano Leoni, poeta: una storia italiana

di / 10 febbraio 2011

Dopo gli anni dell’infanzia, trascorsa a Firenze, l’autore Romano Leoni (1928 – 2007) si trasferì a Bergamo, dove rimase orfano di entrambi i genitori. Negli anni ’50 emigrò a Oxford. Qui si divise, non senza fatica, tra il lavoro in ospedale di giorno e il ruolo di lettore serale madrelingua all’Università, dove presentava le opere di Dante, Petrarca, Ungaretti. Dopo un periodo in Svizzera, rientrò in Italia per riprendere gli studi e iniziare la carriera di insegnante. Nel 1966 si trasferì in via definitiva a Trezzo sull’Adda, collaborando altresì col Gruppo Fara “Stabile di Poesia” di Bergamo. Secondo i curatori del volume “Poesie” (scritte tra il 1950 e il 1995), «la sua voce si distingue dalle varie mode linguistiche, spesso anticipando e superando certe connotazioni d’avanguardia o sperimentazione, avvalendosi di una lingua tersamente pura». Davvero convincente mi è sembrata la prima parte dell’opera, titolata “Tenerezza del mondo” che lascia respirare al lettore le incerte atmosfere dell’Italia postbellica, l’abbozzo confuso di una nazione in cerca d’identità che, pur mossa dalle migliori intenzioni, faticava a riorganizzarsi (felice l’immagine del giovane che compra una medicina, ma poi non trova di meglio che fuggire, perché non può pagare e si vede inseguito dal garzone). Nella precarietà di una fase storica di transizione, è struggente la scoperta della vocazione artistica «Ed io che volevo fare le statue, dove le facevo, per strada?». Forse sembrerà strano a qualcuno, eppure è proprio in quei momenti, freddi e bui, dilatati, sfumati e provvisori, quando lo stomaco frigna, i colori si sfrangiano davanti agli occhi e la testa gironzola sghemba sul collo e le parole si attorcigliano attorno alla lingua, venendo fuori monche e scarsamente rispettose della grammatica, che succede di capire il proprio destino, di scoprirsi inchiodati alla propria “dannazione”, piegati sotto il peso di una croce da portare che, in qualche lingua extraterrestre, deve scriversi così: ars poetica. Di questo volume porterò nel cuore un verso: «Amare è vita a dismisura». Perché l’amore, lo slancio vitale, che, indubitabilmente, è il vero motore del mondo, non è altro che una continua tensione verso l’infinito, proprio come accade per la ricerca letteraria. Una ricerca che è gioia e anche dolore, che nutre e consuma allo stesso tempo, perché, per sommo paradosso, l’arricchimento e l’impoverimento non sono che facce di un’unica medaglia: quella dell’esistenza.

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