A dieci centimetri dal cuore

di / 26 marzo 2011

A dieci centimetri dal cuore è la cronaca emozionata e analitica di una malattia, anzi, di una guarigione. Si tratta infatti di un resoconto, un diario pieno zeppo d’appunti, ma anche di un’espressione letteraria, una trasformazione artistica di un’esperienza realmente vissuta. Lo stile diviene così un aspetto molto importante.
La scrittura è ricca, intensa, a volte anche immaginifica. Più che un freddo report sembra qualcosa di simile ad una collezione di immagini, ad una serie di connessioni personali, rapide, realizzate da chi vive un’esperienza dura e intensa come questa. Quello che colpisce è lo sguardo di Cecilia, l’autrice e la protagonista del libro, capace di cogliere ogni dettaglio e di restituirlo vivo e immediato al lettore. Come scrive lei stessa, a volte “perdo il contatto con il mio pensiero che cavalca, vigliacco, l’onda spumeggiante della mia ansia. Si torce e si contorce come fosse elastico pongo”. E lungo quest’ansia possiamo assistere tanto allo svolgimento degli eventi che al loro effetto sulla vita di una donna di trentotto anni e perfino su di noi che leggiamo questo libro, in qualche modo partecipi.
In questo è racchiusa tutta l’importanza del libro: – oltre alla magia della scrittura – più che una testimonianza, A dieci centimetri dal cuore diviene una fotografia tanto oggettiva che emotiva di che cosa voglia dire trovarsi di colpo, in maniera del tutto inaspettata, ammalati di tumore al seno. Il libro di Cecilia Vedana ci permette di capire tutto questo immedesimandoci. Quasi vivendolo.
Il libro non è suddiviso in capitoli, anche se ripercorre, passo passo, ogni elemento del percorso di guarigione: dalla diagnosi alla chemioterapia. Ma lo fa attraverso dei flash visivi, degli schizzi veloci di situazioni, di stati d’animo, di ricordi, di incontri.
Cecilia coglie tutto: le voci di sostegno, l’imbarazzo dell’ecografista, la prima a intravedere il male, che quasi ipnotizzata dice: “c’è qualcosa”, guardando fissa il monitor dell’ospedale. La formalità del professore che le farà l’intervento. La disponibilità formale dello psicologo, non certo un campione di sensibilità. La sua voglia di scappare e di non confrontarsi con gli altri, soprattutto i colleghi di lavoro. La ricerca di senso che segue alla diagnosi.
“Dove avrò mai sbagliato”, si chiede Cecilia non appena sa della diagnosi, “cosa ho fatto di male”? Saranno state le lacrime non piante, le paure non dette che l’hanno intossicata? “Viene da lontano questo male – dice Cecilia parlando a se stessa – dal dolore non urlato, dalle lacrime non cadute, dalla paura che ti sudava dai piedi e che non hai mai confessato”.
Il libro parla ancora dell’improvvisa mancanza, dell’inadeguatezza e dell’importanza delle parole: quelle della dottoressa, dell’infermiera della chemioterapia che le dice di resistere e di lottare, di tutti gli altri, del marito paziente e del padre, anziano, che non riesce quasi a dire nulla. Poi ci sono le parole del referto: “carcinoma infiltrante della mammella sinistra. B5/ lesione neoplastica maligna”.
Infiltrante. L’assurdità e la precisione di una parola che colpisce e che si insinua anch’essa nei pensieri di una donna che credeva di avere tanto tempo ancora da spendere in qualunque altro progetto. E poi il tentativo di dare un volto al male o almeno un nome: l’intruso, l’infiltrato.
Questo libro ci mostra come alcune parole colpiscono e rimangono impigliate nella mente di chi le ascolta con estrema attenzione, di chi le subisce. E allora serve tempo per scioglierle, per riannodarle, per darle un senso. A volte anche molto, moltissimo tempo.
Un racconto in prima persona che permette di identificarsi con la protagonista e di sentire sulla propria pelle tutta una serie di emozioni che attraversano Cecilia lungo questa prova. Un percorso che ci rende una donna nuova, forse addirittura arricchita dall’esperienza della malattia.
 

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio