La battuta perfetta

di / 1 aprile 2011

Lettura curiosa, quasi bizzarra, quella dell’ultimo romanzo di Carlo D’Amicis: pagina dopo pagina, mentre la vicenda si dipana davanti ai nostri occhi, torna in mente una quantità di frasi celebri. Viene da pensare al Flaiano delle situazioni gravi ma non serie e, soprattutto, della profezia di un’Italia destinata a essere «come l’avrà fatta la televisione». Che l’unica, vera rivoluzione italiana sia stata fatta con il televisore è un fatto: tutti lo sappiamo e tutti ci adeguiamo, ognuno a modo suo. E la storia di questa rivoluzione si può raccontare in modi altrettanto diversi: nel caso della Battuta perfetta, si può dire che prevale l’aspetto comico, amalgamato con una buona dose di tragico. Del resto, quando il protagonista richiama nel nome quello dei Pagliacci di Leoncavallo, si intuisce subito che ci sarà ben poco spazio per risate che lasciano con il cuore leggero.
In effetti, sembra che la televisione – e i sogni che crea – sia il filo rosso che unisce le vicende di due diverse generazioni di una famiglia di Matera, gli Spinato. La prima è la generazione di Filippo, il padre del protagonista che, sollevatosi dall’abisso dell’ignoranza, lascia il profondo Sud per diventare un solerte e integerrimo funzionario della neonata RAI. Tutto preso dalla sua missione di contribuire al progetto educativo della tv pubblica negli anni Cinquanta e Sessanta, finirà con l’alienarsi il figlio Canio e scavare un solco incolmabile tra se stesso e la famiglia, evidenziando la natura gretta e ipocrita dei suoi ideali. E il fallimento privato andrà di pari passo con quello professionale, che lo relegherà in un’oscura posizione alla RAI dove resterà arroccato fino all’ultimo, sprezzante e cieco verso i cambiamenti profondi che la tv di stato ha inconsapevolmente messo in atto. Non andrà molto meglio a Canio, figlio ribelle al modello del padre che reagirà coltivando una filosofia e una prassi del far ridere sempre e comunque, a qualsiasi costo. Vendutosi anima e corpo alla tv commerciale degli anni successivi, da impiegato di Publitalia diventerà consigliere di Berlusconi per poi precipitare rovinosamente, non prima di essersi a sua volta alienato il figlio Silvio. Diverse filosofie, risultati simili perché – sospettiamo – l’ipocrisia di Filippo è solo l’altra faccia del qualunquismo ridanciano di Canio, ed entrambi mettono in risalto la tragica farsa del Belpaese, sfuggito alla morsa del grigiore perbenista di democristiana memoria solo per finire nel variopinto e volgare circo Barnum di un Presidente del consiglio imprenditore, ossessionato dall’idea di voler piacere a tutti.
Nel percorso che porta queste due generazioni alla disfatta compaiono come comprimari volti noti e meno noti della politica e della televisione. Sono altrettante maschere della tragicommedia, spesso sgradevoli quasi quanto le loro controparti in carne e ossa, come nel caso della «mefistofelica barbetta» di Antonio Ricci, con la sua teoria della ragazza discinta in tv come sottile satira del costume. Naturalmente, su tutti primeggia il Cavaliere di Arcore che con Canio arriverà ad avere un inquietante rapporto di complicità, forse proprio per la comune ossessione di voler piacere ed essere amato. Certo, pensare che sia questa la chiave ideale per interpretare il fenomeno del berlusconismo è probabilmente eccessivo: resta comunque un’ipotesi funzionale alla finzione letteraria del romanzo. È però difficile vedere La battuta perfetta come un libro che fa un discorso di tipo esclusivamente sociologico o politico, perché sembra che a D’Amicis interessi di più l’aspetto della solitudine dei suoi personaggi. Questa solitudine non è altro che quella dell’essere umano, non importa se cerchi di contrastarla seguendo la via di una grave serietà o di una risata sfrenata, e sembra questo il senso più profondo della vicenda degli Spinato. Una conclusione inquietante, solo in parte fugata da un finale a prima vista incongruente, come se D’Amicis esitasse davanti al baratro di solitudine e nichilismo su cui si è affacciato, e decidesse di afferrare all’ultimo momento l’appiglio di un ottimismo della volontà. Arrivati alla fine del libro, sappiamo che le cose non sono così semplici ma fingiamo di crederci: basterà accendere il televisore il giorno dopo, per mostrarci che la tragica farsa è ancora lontana dalla sua conclusione.
 

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