Arrovescio

di / 4 aprile 2011

“Arrovescio” è un libro che si legge tutto d’un fiato. Narra del coraggio, della volontà e della dignità di un piccolo paese della costa ionica calabrese che si ribella scioperando al contrario, cioè lavorando quando invece i politici vorrebbero impedirlo. Dopo la seconda guerra mondiale a Badolato la vita è diventata ancora più incerta e difficile, in bilico tra gli interessi dei potenti di sempre, i baroni, e l’ansia di riscatto dei pastori e dei contadini. Questi ultimi sono ancora affascinati dall’arrivo degli Americani. Si sentono scossi da una rinnovata energia, desiderosi di progresso, di civiltà. Decidono di realizzare le loro aspirazioni di libertà, sostituendo con una strada vera il vecchio sentiero accidentato che ancora si arrampica sui fianchi della collina di Giambartolo. La politica peggiore, quella del compromesso e della corruzione, vorrebbe impedirlo, ma un intero paese decide di ribellarsi perché sulla nuova strada potranno correre comodi i sogni, passeranno gli anni della ricostruzione, il futuro dei figli di una generazione di poveri certo, ma soprattutto di uomini coraggiosi. “Arrovescio” è in tal senso dedicato a tutta la gente che “costruisce strade in salita”, quelli di allora e quelli di oggi.

Spesso  scoraggiati per mille motivi, sentiamo crescere una arrendevolezza nel cuore che ci fa stringere i pugni, ci abbatte e poi ci lascia  sconfitti senza lottare. Questa storia è ricostruita con le voci di personaggi realmente esistiti e, spesso, è presentata proprio attraverso gli occhi dei bambini di allora, diventati nonni  oggi.  Leggendo “Arrovescio” abbiamo l’opportunità di conoscere il sud ferito degli anni ’50 che, tra fame e freddo, si ritrova unito in uno sciopero a rovescio. Ci offre la possibilità di conoscere la rabbia costruttiva, la determinazione di cui sentiamo più il bisogno, ed è come se una domanda arrivasse a bussare ancora alla nostra porta, la stessa domanda di impegno e speranza che, più o meno,  il 13 ottobre del 1950 era arrivata così: 

“Erano notti di inizio ottobre, di quelle tiepide che il fiato del mare sembrava risalire dalla valle fino all’Immacolata e poi perdersi nell’intreccio di vicoli. I passi e i discorsi circospetti ripetuti di casa in casa le riempivano di vita: «Avevate presente la strada di Giambartolo? Abbiamo pensato una cosa: la costruiamo noi e poi chiediamo le giornate di lavoro. Servono operai. Voi che fate? ». «Ci stiamo».”

“Arrovescio” è veloce, in poche e appassionate pagine riesce a denunciare l’ostilità di una classe dirigente corrotta che vuole impedire  di promuovere il progresso, ma descrive in modo altrettanto nitido la determinazione e la voglia di riscatto delle nuove generazioni del sud. È ispirato allo sciopero a rovescio di Badolato, durato dal 13 ottobre al 9 gennaio del 1951. La ricostruzione storica diventa spesso difficile, ma come ricorda l’autrice nella nota introduttiva:

“Per chi intenda passare comunque al setaccio queste pagine, separando la verità dalla finzione, ho solo un consiglio: attribuire il bello, l’alto, il nobile, il commovente che si dovesse mai trovare ai badolatesi, quanto resta all’immaginazione della sottoscritta.”

Non è forse questo il punto di vista della letteratura migliore? Nel libro colpisce la fine caratterizzazione dei personaggi: don Antonio, il barone che non vuole perdere il controllo sulla propria terra, è ostile all’operosità dei suoi concittadini che vogliono una strada vera per il loro paese, ma si rivela anche capace di piangere in silenzio di fronte allo scempio dei suoi ulivi, mostrandosi orgoglioso sì, ma anche rispettoso nei confronti dell’albero che nei momenti di maggiore sconforto ha sempre rappresentato la vita per ogni comunità contadina. C’è poi il parroco, indifferente alle pene dei più deboli o i carabinieri, costretti controvoglia a piantonare le case, che vengono prima osteggiati, ma a cui viene alla fine offerta addirittura una coperta per affrontare il freddo, proprio dalle famiglie che dovrebbero controllare. Infine ci sono i bambini che con i loro racconti riescono a portare questa storia fino ai nostri giorni.

 “«Sono fredda, stanca e morta come le foglie di quei faggi molli. Oh natura, ho parlato troppo». Fuori la notte nera si era mangiata il profilo della torre, dentro il padre russava già da un pezzo. Abbandonò il quaderno in mezzo ad aghi, forbici e filo, mezzo nascosto sotto la gonna verde che Vittoruzza, sempre più secca, le aveva chiesto di stringere. Di addormentarsi vestita come il padre, per essere pronta ad ogni sventura, però non era mai stata capace. E visto che non poteva neppure spogliarsi, con i soldati che là fuori ballavano la tarantella dal freddo, Carmelina piegò la testa su un lato, lasciando che la prendesse l’ora dei mali pensieri. La strada in montagna, i compagni in galera, Giuditta sotto terra, il sangue sulle mani, l’autunno ovunque, la vita e la morte. Tutti così mescolati che a distinguerli non era capace e per la verità manco ci provava. Per tenerli un po’ a bada, provò a fingersi in un bosco di faggi, morbido sotto i piedi com’erano certe coperte di signore. Ma passava un attimo e già dietro un albero compariva la canna nera di un fucile. Non c’era pace neppure nei sogni. Solo che quella notte non voleva lacrimare e allora si sforzò di immaginarsi il giorno in cui sulla strada di Giambartolo, bell’e finita, la prima automobile sarebbe partita tra due ali di folla. Le bastò poco per figurarsi tutto davanti agli occhi[…] c’è pure don Antonio che ha finalmente capito che la strada è cosa buona e giusta e vale più dei suoi ulivi.”

Quest’ultimo frammento è forse il modo migliore per far capire come “Arrovescio”   sia un libro da leggere e custodire, perché capace di arricchire ogni libreria di cui farà parte.

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