“L’evoluzione di Bruno Littlemore” di Benjamin Hale

di / 24 gennaio 2012

Manca poco. Meno di un soffio. O magari già si sfiorano e ancora non lo sanno. Due palmi si tendono, s’inarcano al vento. 
E poi s’allungano addosso alle crepe, alle spalle di un cielo già vecchio. Del primo cielo. Sono pronti. Solo un attimo e accenderanno ogni cosa. Perché quel tocco è l’interruttore. 

È tutta lì la Creazione di Adamo. In quello scarto, in quel piccolo spasmo tra la mano dell’uomo e quella di Dio. Intimamente vicini e così alieni. A un battito l’uno dall’altro. Eppure, sappiamo, semplicemente inconciliabili. E quella stessa immagine, “parafrasata” e rivisitata, ci svela il senso intero del primo libro di Benjamin Hale L’evoluzione di Bruno Littlemore (Ponte alle grazie, 2011).

Anche qui viaggiano due estremità, galleggiano insieme alla deriva del mondo: quella umana, più molle e impigrita, forse perché aspetta ancora le nuvole; e quella di Bruno. Che uomo non è. E cosa allora? Scimpanzé, almeno all’inizio. Nasce in uno zoo di Chicago, contornato da una famiglia perfettamente calata nel suo selvatico ruolo. Una madre passiva e accogliente, che lo allatta di silenzi o di versi inconsulti, che non si sforza di essere altro se non una bestia; un padre violento ed egoista, che consacra il suo tempo a spargere seme, accoppiandosi con qualunque creatura si pieghi al suo istinto; un fratello d’innocua pochezza e una sorella innocente, con cui contare le pulci e sorprendersi per ogni dettaglio. Ma Bruno non è come loro. Non sa attenersi a quell’esistenza così simile al nulla, senza tensioni, senza passioni, senza domande. E la prima ad accorgersene sarà proprio Lydia, primatologa dell’Università, che legge in lui un altro tremore, un’inclinazione fortissima verso i riti, i colori, i perimetri incerti del regno umano. Fin dai primi esperimenti il soggetto si rivela diverso da tutti gli altri. La scimmia osserva, interroga quella Babele di sguardi e di suoni che colano impazziti e si coagulano in grumi chiamati parole. E così individua il suo obiettivo: staccarsi dalla sua origine e intraprendere un nuovo cammino. Verso un’altra postura, un altro aspetto, verso uno specchio in cui riconoscersi.
Verso l’amore. Eh sì, perché l’animale sprofonda nella trappola più antica. Nella tagliola da cui nessuno sa mai liberarsi. Lydia lo impiglia senza saperlo, lo avvolge nel suo universo, nella sua casa affollata di mobili e rumori. E Bruno continua a cambiare, inarrestabile, modifica il suo volto, lascia piovere i peli fuori dal suo corpo, impara a vestirsi, a coprire di stoffa i suoi brividi. Ma arriva a un punto in cui deve fermarsi, quel limite infinitesimo tra sé e il suo traguardo. Che non potrà mai appartenergli del tutto. E proprio da lì, da quel posto scomodo e privilegiato, da quel limbo di pochi millimetri sull’uscio dell’uomo, Bruno, che ha scelto il cognome della donna amata, racconta la sua specie e poi la nostra, quella prossima e irraggiungibile. Le architetture della nostra follia, il nonsenso delle nostre espressioni, per cui latrare di notte insieme a un autistico diventa prezioso e stimolante, più di uno scambio accademico.

Hale ci regala un notevole esordio, costruisce un diario energico e completo, un’intervista in cui l’essere ambiguo snocciola ogni parte della sua vita. Con forza, ironia, una proprietà di linguaggio raffinata e competente, sradica i grandi temi della nostra evoluzione. Cosa ci ha indotto a essere umani, al di là delle altezze e delle strutture e cosa ancora ci trattiene, su quel filo sottile, a cercare di essere migliori.


(Benjamin Hale, L’evoluzione di Bruno Littlemore, trad. di Lorenza Di Lella e Sonia Scognamiglio, Ponte alle Grazie, 2011, pp. 558, euro 21)

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