Ho bevuto ubriacandomi sulle tette del mondo

di / 10 febbraio 2012

Ho bevuto ubriacandomi sulle tette del mondo, sulle tette rifatte del mondo. Semmai da lì fosse facile amare la vita. Ma l’amore è una stanza di dieci pareti e nessuna finestra. Di dieci pareti nessuna finestra e un tubo, per l’acqua potabile, arrugginito. E manca il cesso. L’amore è una stanza a cui manca il cesso. Nell’angolo sinistro rivolto a Oriente, tra la terza e la quarta parete, una padella capovolta, con sopra uno spicchio d’aglio. A illuminare gli spogli tramezzi bianchi come spettri in calore, una lampadina. Scende dritta dal soffitto esattamente a metà della stanza, per fermarsi a mezz’aria. Mi ha sempre ricordato quel quadro… come si chiama, sì la Pala di Brera, con questo uovo che cala dalla conchiglia. Già. Potevo pensare a una conchiglia per descrivere in due parole l’amore. Ma la stanza poligonale lercia fa il suo effetto.

«Vodka o birra?»
«A questo punto mi metti in crisi.? Vada per la birra, nella vodka».
«Ma che schifo è Marc?», gli feci tirandogli una gomitata al fianco destro.
«È per il piano, no? Piuttosto, pensavo che eri caduto nel bagno. Venti minuti esatti. Hai pisciato, sì?»
«No».
«E che cazz…»
«Mi sono rullato una canna e mi sono seduto sulla tazza a pensare».
«Ancora a lei? Matt stai pensando ancora a lei? Quand’è che la finirai? È diventata un’ossessione e mentre tu ti stai ossessionando lei starà facendo dei bei pompini da qualche parte».
«Sei la solita testa di cazzo Marc. Vorrei darti tanti di quei cazzotti sulle palle che… fanculo. Piuttosto, ci vediamo alla baia tra un quarto d’ora. Sbrigati».
«Alla baia, tra un quarto d’ora».

Gli avevo già voltato le spalle e mi ero diretto davanti al frigorifero del pub. Lo aprii con forza e presi una bottiglia di rhum e quattro birre in lattina. Non feci caso nemmeno alla marca, le presi e basta. Marc si sarebbe lamentato ma a me non sarebbe fregato un granché, non quella sera. Presi un bel respiro, mi voltai e diressi lo sguardo al bancone dove, in piedi, c’era Marc che si stava bevendo quello strano miscuglio e montava assurde scenette teatrali da clown, tentando di abbordare la cassiera. Non avrebbe abbordato nemmeno una capra, in realtà. Con quella faccia. Ma rientrava nel piano: distrarre.
Dopo la morte di suo figlio non fa altro che sputare in faccia alla vita. E fa bene. Dopotutto lo sto aiutando a sputare.
Sedute al suo fianco c’erano altre persone. Bevevano caffè, cocktail, amari. Afa. Per via delle troppe persone. Tutti erano presi dai propri discorsi. Le chiacchiere si disperdevano, girovagando senza senso. Al piano di sotto si appendevano sogni alle note di una chitarra.
Ok. Era il momento giusto. La porta d’uscita stava a sei passi da me, o dal frigorifero, o dal frigorifero e me. Sgattaiolare sarebbe stato facile anche questa volta. Braccia tese e aderenti alla gamba. Natiche strette. Sguardo a terra. Passo veloce. Via.
Fuori. Presi a correre. Urtai la spalla di una signora ma non chiesi scusa. Troppe scuse. Attraversai la strada senza guardare. In giro non c’era anima viva. Voltai per una viuzza. Dopo appena cinque minuti mi ritrovai nel parcheggio di via Ignazio. Sfiancato, mi appoggiai a un muro, accesi una sigaretta e mi stappai subito una birra.
Misi in moto l’auto, dopo aver cercato per due minuti buoni le chiavi.
«Che cretino! Sono un emerito cretino. Come si fa a lasciare la macchina aperta con le chiavi infilate. Ma soprattutto come si fa a non rubarla in queste condizioni, diamine. Le cose semplici non piacciono a nessuno eh?», borbottai, prendendomela col volante, convinto che mi avrebbe parlato, che si sarebbe ribellato.
Ma non ottenni risposte dall’oltretomba per tutto il breve tratto che portava alla baia.

«Come mai tutto questo tempo Matt?»
«Ho tentato di parlare con un volante!»
Era già lì, sdraiato sulla spiaggia vicino a quel decrepito casolare.
«Ehi, e questa bottiglia di vino chi te l’ha data?», gli feci sorpreso.
Essere un ubriacone è un privilegio, per un lineare motivo: i liquidi. Io sono rimasto senza lavoro e Marc non se l’è mai passata bene. Rubare, per volare. Era il nostro motto.
«Un tizio. Gagliardo!»
«Ma dai?»
«Stavo intrattenendo la cassiera con la mia classe quando un tizio si avvicina, ordina due bottiglie di vino rosso. Un novello. Le guardo. Lui mi guarda e dice: “Un sorso?” Ottimo!, penso. Così cominciamo a bere, finché non si ferma ad ascoltare la musica proveniente dal piano di sotto. “Io la conosco tal canzone”, mi fa. “Tal canzone la conoscono tutti. È De André”. E lui, a sua volta: “De André? Quello pelato giusto?” “No. Aveva i capelli, e lunghi pure!” “È vero lo sai? Hai ragione! Che portava sempre un cappello, e gli occhiali? Sì come no, ci sono sempre andato matto”. Al che mi viene da ridere. E gli rido in faccia».
«E lui?», chiesi a Marc, divertito.
«E lui mi abbraccia e scoppia a piangere. Ti giuro. Piange sulla mia spalla sinistra».
Sbottai in una risata fragorosa.
«Tu ridi, ma è uno dei nostri, Matt. È un orfano di Dio anche lui».
«Uno che non conosce De André è molto di più che un orfano di Dio, Marc».
«Era ubriaco».
«Beh, apriamola ’sta bottiglia», strappandogliela dalle mani.
«Insomma l’ho invitato qui, a stare con noi. Ha detto che sarebbe venuto, più tardi. Forse. Non lo so. Tant’è che per ringraziarmi mi ha regalato la bottiglia che tu ti stai scolando».
«È anche buono, cazzo!»
«Ehi, figlio di puttana guarda che ci sono anch’io!»
«Tieni».
«E il tuo bottino?»
«Rhum e birre».
«Quelle che io amo?»
«No».
«Sei un cornuto. Io le Nastro Azzurro le detesto, lo sai!»
«Ciò che tu odi, Marc, verrà odiato da te».
Il silenzio ci buttò addosso una manciata delle sue preziose vesti. Rivolgemmo brindisi gratuiti alla luna gelida e bianca che di spalle lavorava a maglia. E più si beveva e più ci illudevamo di avvicinarci alle labbra e alle cosce dell’esistenza beffarda che ci stava travolgendo. Ma era un inganno; l’ennesimo. La realtà è un inganno, totale. Deride la vacuità dei sogni dichiarando guerra alle illusioni.

«Stanno arrivando».
«Chi sta arrivando Marc?»
«Gli alieni, stanno arrivando. Stanno venendo a salvarci. Guarda che bella navicella a metà che hanno, Matt!»
«Quella è la lana… la luna. Diamine! È tutta la sera che sputacchio invece di parlare».
«Non è una novità Matt, lo hai sempre fatto. E con le donne fai anche peggio!»
«Beh! Sempre meglio che farsi le seghe sopra i santini che ti sei rubato in chiesa!»
«Noo! Matt ti avevo detto che era un segreto, cazzo ora tutto il mondo lo sa!»
«Siamo solo io e te, dannatamente soli su questa spiaggia. Come fa a saperlo tutto il mondo? Me lo spieghi?»
«Ehi Matt…»
«Dimmi».
«Ricordami perché stiamo bevendo!»
«Con molto piacere!» Mi alzai e, barcollando, mi appoggiai al suo ginocchio. Marc si trovava sdraiato a terra, intento a fissare la bianca navicella che lo stava portando lontano, non saprei dire dove, ma ovunque è un posto migliore. Sempre. «Per ricordare a noi stessi che disprezziamo la vita perlomeno il pari di quanto ci disprezza lei», urlai improvvisando una mezza danza con una bottiglia per dama.
«Wow… e poi?»
«Per rendere il più breve possibile questa agonia terrena. Cazzo!»
«Vai col valzer Matt! E poi?»
«Ehm… e poi… e poi… e poi il terzo e poi non me lo ricordo. Quando abbiamo stabilito un terzo e poi
«Indovinello, indovinello…», rise, bofonchiando e battendosi le mani al petto a mo’ di tamburello.
«Fanculo, e dammi un altro sorso che te la stai scolando tutta tu la vescica del buon Dio samaritano!»
«Bello!»
«Cosa?», risposi.
«Quello che hai appena detto!»
«Che cosa ho appena detto?»
«E… non me lo ricordo sai?»
Prese a ridere sputando a terra l’alcol che aveva appena ingerito. Allora io gli saltai addosso e lo cominciai ad abbracciare e a mordicchiare e lui gridava e rideva gridando e gridava ridendo e ridendo ancora, colto da un’improvvisa voragine di felicità, di assurda e innocua felicità.
Mi buttò da un lato. Ora le nostre teste erano vicine. Come i pensieri: volatili preistorici. Tutto l’universo era lì, in un pugno di astri assecondati dalle pazzie dell’uomo. Girava. Fremeva in un girotondo impazzito.

«Marc!»
«Matt…»
«L’ho trovato».
«Ma dai?»
“Sì, l’ho trovato.”
«Davvero?»
«Marc!»
«Matt…»
«Ti dico che l’ho trovato…»
«Sì ma che cosa?»
«Oh finalmente me lo domandi…», prese a ridere, e io con lui, assecondandolo nella risata. «Il terzo e poi…»
«E dillo, forza!»
«Per fremere insieme alle stelle in un girotondo impazzito».
«Ah, bellissima!»
«Ma l’hai capita?»
«Non l’ho capita ma mi piace. Dobbiamo brindare! Brindiamo! Brindiamo!»

Marc si alzò con fatica, girandosi prima un po’ su se stesso, impanandosi di sabbia. Una volta in piedi, sembrava un faro che disperdeva una luce irregolare o una pala eolica sposata col più misero sibilo di vento. Cercò la bottiglia di rhum che si trovava dalla parte opposta del suo campo di ricerca: distesa a terra ci somigliava un po’, con l’ultimo goccio di aspra euforia al suo interno. Lo guardavo divertito. Era impacciato. Assuefatto. Un tutt’uno col girotondo del cielo. Cominciai a fischiettare stabilendo un ritmo che accompagnasse quelle due forze contrastanti, che a braccetto si dimenavano per liberarsi da qualcosa di molto più grande di loro. Poi si fermò. Prese equilibrio. Un passo. Un altro. Poi un altro ancora. Friabile, fiacco, malfermo. In direzione del mare.
«Ehi!», gli feci.
«Ehi!», rispose alzando un braccio.
«Vuoi scolarti anche il mare?»
«Devo cagare!»
«Ora?»
«Sì, ora!»
Si levò i pantaloni, poi la sua camicetta, infine le mutande. Rimase nudo, nudo con le scarpe ma senza i calzini, senza i calzini. Si chinò, ma cadde di culo sull’acqua, che lo fece inchinare da una parte. E cagò così. Di lato. Comodo. Come se stesse sognando.
«Forza alzati vuoi affogare?», lo strattonai sul bagno asciuga.
«Matt?»
«Dimmi».
«Mi gira la testa».
«Hai bevuto molto».
«Ma sono felice».
«Èquesto che tutti vogliono»
«E tu sei felice?»
«Solo quando sono con te, amico!»
«Matt…»
«Sì, Marc?»
«Pensi che mio figlio mi stia guardando in questo momento?»
«Certo. E si sta facendo un sacco di risate, Marc!»
«Ride di me?»
«Non ride di te Marc. Ride e basta».
«Mi manca».
«Lo so».
«E lui lo sa, secondo te?»
«Lo sa. Ti sente. E sente anche il tuo dolore».
«Fammi fuori. Prendi una carabina e fammi fuori!»
«Se mi paghi ok».
Mi strinsi la sua testa al petto. Nudo. Con la merda spostata dalle onde.

«Ieri sono andato in un convento», gli dissi, «un convento di clausura. Mi sono avvicinato a una grata per parlare con una suora. Gli ho chiesto di pregare per me, su due piedi. Sai cosa mi ha risposto lei, Marc?»
«Sia lodato Gesù Cristo?»
«Mi ha risposto di no».
«Di no? Ma è pazzesco», rise e di colpo il suo viso era tornato attivo e vitale quasi come se il discorso di prima fosse stata una parentesi a sé.
«Già».
«No. No e basta?»
«Io non prego per te se tu non preghi per te. Gridala la tua disperazione. Ecco cosa mi ha risposto».
Rimase a guardarmi, incuriosito.
«Forse abbiamo sbagliato tutto Marc. Forse stiamo sbagliando tutto. E se fosse proprio questo il punto? E se fossimo noi a evitarla di proposito la felicità?»
«Vaffanculo Matt. Mi è morto un figlio, capito? Un figlio. Non mi ha lasciato una moglie dopo venti anni di matrimonio. Mi è morto un figlio. Un figlio, cazzo. Lo vuoi capire? Lo volete capire tutti?»
«Allora urlala al mondo la tua disperazione Marc, proviamoci! Gridiamo al loro cazzo di Dio quanto è stronzo. Ma non anneghiamo; perché a volte temo proprio che invece stiamo annegando».
«Portami a casa».
«Ce la fai a guidare?»
«Non importa».
«Importa eccome!»
«Ho detto portami a casa. Eri più divertente dieci minuti fa!»
«Siamo ubriachi».
«Voglio tornare a casa Matt, perché mi fai questo. Voglio il mio letto, voglio un po’ di caldo Matt… non lo vedi che sono disperato Matt? Cazzo Matt…. non ce la faccio più, più…»
Lo fissavo.
«Dannazione Matt», urlò con rabbia e mi venne incontro. Mi mollò un cazzotto sul collo e cademmo a terra. Lui si rialzò per cadere ancora e rialzarsi e cadere e continuare a gridare. «Vuoi che urli al mondo quanto sono incazzato, eh Matt? Vuoi che faccia come ti ha detto quella puttana di suora che si è rinchiusa in un convento per paura che il mondo la tocchi? Eh? Lo vuoi? Allora vaffanculo, vaffanculo». Cominciò a tirare pugni sulla sabbia e a sbatterci la testa contro, in lacrime. «Fatti vedere Dio! Fatti vedere!»
Lo aiutai ad alzarsi ma si dimenò. Prese a correre. Cadde. Riprese a parlare: «Sei un fottuto bastardo Dio. Mi hai rubato tutta la mia vita, sei contento ora? Sei contento? Qual è il senso di questa fottutissima vita di merda dimmelo cazzo di un Dio dimmelo! Rivoglio mio figlio! Dimmelo…»
«Si diccelo Dio, diccelo!» Lo aiutai a gridare, a sputare rabbia, convinto che davvero qualcuno ci sentisse e ci ascoltasse attentamente. «Perché ci hai abbandonati, perché? Che effetto ti fa sentirlo per una seconda volta, eh, diccelo, diccelo…» 
Mi levai una scarpa e la lancia in cielo. La vidi ricadere in testa a Marc senza che lo volessi. Lui la riprese bestemmiando e la rilanciò verso il cielo. «Prenditi questa!», disse convinto.
«Dio!»
«Dio, dio dio dio. Mostraci il tuo volto Dio!»
Poi Marc cadde a terra sfinito e io lo raggiunsi subito dopo, abbracciandolo e stringendolo e baciandolo. Il girotondo dell’universo era concluso. Il cielo pareva calmo. Profumava di una pace intima.
«Ci avrà sentiti Matt?»
«Non credo».
«Allora siamo fottuti».
«Lo siamo sempre stati Marc!», gli risposi sorridendo. «Andiamo, ti riporto a casa da tua moglie, che sarà in pensiero».
«Magari domani risponde…»
«Magari domani diamo la caccia ai vampiri, che ne dici Marc, ti va?»

Fabio Appetito fa parte degli autori del blog di scrittura Vongole & Merluzzi.

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