“Wrecking Ball” di Bruce Springsteen

di / 14 marzo 2012

È profondo il solco che intende lasciare Bruce Springsteen col suo nuovo Wrecking Ball. Una profondità che al primo ascolto appare subito cifra caratterizzante e assieme veicolo delle tante questioni espresse.

Non di un solco invece, ma di una netta inversione di tendenza si può parlare rispetto agli ultimi due lavori, Magic e Working on a Dream. Due contenitori di gradevoli e a tratti ottime canzoni, ma lontane da quell’unità e compattezza che Wrecking Ball invece conferisce senza timore di smentita. Anche i critici più attenti al dettaglio non possono non riconoscere che siamo di fronte a undici brani sapientemente concepiti e realizzati (nella versione deluxe c’è l’aggiunta di “Swallowed up” e “Amercan Land”), con tonalità e arrangiamenti convincenti e più simili per certi versi a The Rising del 2002. Allora come oggi, il disco nasceva da un’urgenza di risposte (e di domande), dopo la terribile sfida lanciata in quell’ormai famigerato 11 settembre 2001; gli americani, impauriti e spaesati, aspettavano di conoscere il punto di vista del loro cantautore più rappresentativo. Vale lo stesso oggi, di fronte a una paura però più sfuggente, non per questo meno intensa. Ora a regnare è una disillusione che Springsteen vuole caricare di energia, di volontà di reagire. C’è spazio eccome per la speranza, non temete. Disillusione e speranza in un ossimoro che si riflette anche nelle note (in un pezzo rock arriva improvviso il folk, o addirittura il rap), ma non ne scalfisce l’equilibrio penetrante dell’intero disco.

Un progetto che deve essere apparso immediatamente buono allo stesso cantautore, se poteva costruirlo attorno a un cavallo da corsa già rodato come “Wrecking Ball”, canzone già da qualche tempo eseguita dal vivo e qui presentata in un crescendo maestoso. È un appello a resistere alla rabbia e a non farsi abbattere dalla paura.

L’altra certezza collaudata è il già classico “Land of Hopeand Dreams”, anch’esso conosciuto e per l’occasione rispolverato in una versione studio che ben si presta a mantenere dritta la rotta verso «una terra di speranza e di sogni».

Per tentare di trovare qualche risposta, ancora una volta Springsteen decide di immergersi dove si respira davvero il dolore, in quella periferia d’America dove a parlare devono essere i protagonisti. Sono loro che raccontando le proprie storie danno unità e senso a tutto il disco. Il singolo “We Take Care of Our Own” immette subito chi scolta in un tale scenario. Il messaggio è diretto e confortante, perché è «occupandoci di noi stessi e dei nostri cari» che possiamo mantenere riferimenti certi nella selva delle tante crisi odierne.

Sul versante strettamente musicale, l’esperienza delle Seeger Sessions non appartiene al passato. Dà ancora frutti notevoli, perché Bruce getta nella mischia spesso quel tocco di folk che valorizza e rende epici momenti come “Easy Money”e ancor più “Shackled and Drawn”, in cui il contrasto fra la collina del banchiere e il “quaggiù”, dove le catene impediscono anche di sognare, si fa stringente e accenna a una questione decisamente attuale. Il momento è di quelli in cui non c’è da scherzare e i margini per una tranquillità simile a un miraggio sono sempre più stretti. È l’ambiente della struggente “Jack of All Trades”: è necessario saper fare tutto per andare avanti, o perlomeno adattarsi, in ogni caso prendere «il lavoro che Dio ci dona», e vedrai «amore che ce la caveremo». Subito dopo ancora il folk a imporsi nella potente “Death to My Hometown”, con l’elemento popolare che sembra affacciarsi dalla finestra nel retro, mentre invece è ben presente e fa sentire la propria voce di protesta.

Wrecking Ball è un disco che non fa mancare sorprese. Da questo punto di vista vengono in parte confermate le anticipazioni che parlavano di un album dal carattere sperimentale. Ne è prova evidente soprattutto “Rocky Ground”, quando la vocalist Michelle Moore a un certo punto approccia addirittura a un rap che non vuole comunque strafare. È forse la spiccata commistione di stili, simbolo positivo di un’America che proprio nella musica trova la realizzazione migliore della varietà di culture, a fornire la novità all’album. I riferimenti sono però precisi anche per gli springsteeniani doc, i quali trovano costante riferimento in uno stile che non viene stravolto, semmai ampliato, rinnovandosi e confermandosi a un tempo. Per suggestioni “più antiche”, “You’ve Got It” rimanda al Bruce anni ’80.

Non andava certo a caccia di conferme o gloria. Non sarebbe comunque nel suo stile. L’impressione però è che Springsteen avesse bisogno di un album così (la recente scomparsa dell’amico Clarence Clemons impone già di per sé una riflessione totale, da qui in avanti). E che ne avessero bisogno i fan o chi cerca nella sua musica un riferimento per i propri, tanti problemi quotidiani. Il carattere popolare del rock di Bruce Springsteen è ciò che permette un tale ancoraggio (anche dopo i milioni di incassi e una vita certo non da periferia) alle backstreets così incisivamente descritte. Il messaggio deve sempre rimanere aperto alla speranza, e a volte la spinta a credere è più semplice di quanto possa sembrare. Mentre ci affanniamo a pensare ai nostri drammi, quasi dimentichiamo che il viaggio non è finito, perché We are alive.


(Bruce Springsteen, Wrecking Ball, Columbia, 2012)

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