“Tutta la bellezza deve morire” di Luigi Pingitore

di / 8 maggio 2012

«Fratellino capisci cosa dico? Non abbiamo altro al mondo per cui valga la pena vivere. C’è solo la bellezza. E dobbiamo arrenderci a lei. Lasciare che ci invada».

Lasciarsi invadere dalla bellezza significa perdersi sgomenti nell’ebbrezza di un’estasi che si vorrebbe procrastinare in eterno, ma che dura il tempo di un istante. Da ragazzi si pensa di avere tutta la vita davanti. C’è però una cosa che getta nella più profonda disperazione chi ancora non si è creato gli anticorpi per sopportare l’«arido vero» di leopardiana memoria: la consapevolezza della caducità della bellezza, perché «tutta la bellezza deve morire».

Tutta la bellezza deve morire è proprio il titolo decadente del romanzo di Luigi Pingitore, giovane sceneggiatore e regista napoletano, secondo libro di un trittico di romanzi, iniziato nel 2005 con In the mood (Cadmo), dedicato all’estate e alla giovinezza.

È il racconto di un estate del 1996 trascorsa da un gruppo di adolescenti tra i 17 e i 20 anni, fra giri in vespa, salti nel vuoto da cornicione a cornicione, tuffi e alcol, cui fa da controcanto la vicenda dello scultore francese Ezra alle prese con la rielaborazione del suo personale lutto. C’è poi il disilluso trentenne Ludovico, detto Rudy, che contribuisce ulteriormente ad agitare le acque già increspate della tormentata interiorità di Pier: «È così la vita dei trentenni? La solitudine senza nessuna gioia apparente?».
Giovani alle prese con le loro inquietudini. Pier alla ricerca della sua fidanzata Francesca, Dario con la sua voglia di andare, Liv che vuole una cicatrice sul suo corpo da dea, Luca «uno di quelli che guarda la vita restando ai margini», Silvia e Alessia hanno bisogno di emozioni forti per sentirsi vivi e sconfiggere la paura di oltrepassare la linea d’ombra.
Del resto, l’adolescenza è un universo strano, dai colori vivaci o profondamente cupi, pieno di gente o desolatamente vuoto, bisognoso di certezza, ma alla ricerca di trasgressioni.
La loro storia finirà per intrecciarsi con quella dolorosa del cinquantenne Ezra, un padre che si mette sulle tracce lasciate in quei luoghi ameni della costiera amalfitana dalla sua unica figlia Sara, precocemente morta in un incidente stradale. L’incontro con l’apparentemente solare comitiva avviene quasi per caso. Ezra tenta di afferrare il mistero della giovinezza, ma non riesce a comprenderlo. Meglio per lui rifugiarsi nel potere creativo dell’arte e abbandonarsi a una disarmante constatazione: «La gente si inventa meccanismi per sfuggire al dolore e poi si scopre che sono quei meccanismi stessi il dolore, perché ci tengono in continuo movimento, ci impediscono di accettare la verità più semplice. Che bisogna lasciar andare ciò che deve andare».

Su tutta la vicenda grava un senso di inevitabilità della fine di tutto (giovinezza, bellezza, speranza, illusioni), la percezione di un piano inclinato che porta fatalmente alla tragedia. In ogni parola c’è tutto lo sconforto di essere giovani in un luogo, quello splendido, mozzafiato e abbacinante della costiera amalfitana, e in una stagione, quella estiva, sinonimo di vitalità e spensieratezza. Ma anche questi ragazzi, per quanto amino assaggiare l’aria rarefatta delle cime, reali o metaforiche, sono della razza di chi rimane a terra. Pier, Dario, Liv, Francasca, Luca e Silvia alla fine raggiungeranno quella condizione di perfezione per cui è del tutto indifferente essere vivi o morti, perché hanno smesso di chiedere, né hanno nulla da sperare o da temere nel momento in cui aderiscono totalmente all’istante presente, illudendosi di possedere in sé il mondo intero nell’abolizione di passato e futuro: «…tutta questa gioventù compressa nella propria bellezza e nella potenza di chi non ha mai avuto altro davanti agli occhi che il giorno dopo, e quello dopo ancora, come se la vita non fosse nient’altro che un interminabile attimo senza un prima e senza un dopo, è solo un’ostentazione di felicità leggera e opaca, esattamente come quella giornata».

Pingitore racconta situazioni a sfioro sull’abisso. In fondo a quell’abisso c’è inizialmente il mare, l’elemento che più di tutti è indice di indistinzione, con cui i ragazzi vorrebbero sentirsi una cosa sola, ma poi ci sarà il vuoto. Lo fa con una prosa introspettiva, la cui patina è lievemente opacizzata dal flusso di pensieri dei personaggi che si rincorrono come onde, dai versi di Rimbaud mandati a memoria da Pier e dal loro lirico candore che raffredda i getti emozionali. Scorci e vedute paesaggistiche, resi realistici da uno stile visivo e cinematografico, contribuiscono a suscitare nei lettori lo stesso totale annichilimento dei sensi provato dai giovani.
D’altronde Thomas Mann diceva che «La bellezza ci può trafiggere come un dolore».


(Luigi Pingitore, Tutta la bellezza deve morire, Hacca, 2011, pp. 304, euro 14)

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