“Desh” di Akram Khan

di / 4 ottobre 2012

“Desh”, in urdu significa “Patria”. Ma attenzione, non tutti intendiamo la stessa cosa quando ne parliamo. Per molti Italiani è uno dei tanti orpelli cui si sono abituati, insieme al tricolore che sventola inascoltato sulle sedi istituzionali, ai politici che sorridono, mentre pensano alle loro note spese, alla numerazione alle Poste, che tenta di impedirci di scavalcare chi è arrivato prima di noi. Insomma Patria è semplicemente il contenitore formale di questi comportamenti sostanziali. Ma Patria può voler dire anche origine, di se stessi, della propria famiglia, del futuro che si potrà o meno disegnare per i propri figli. Patria può voler dire ricerca di identità, può voler dire traffico che assedia le nostre città, senza permetterci di attraversare, figuriamoci di pensare; ma può voler dire anche stancarsi di questa patria e scappare, può voler dire odiare questa patria per quello che è diventata e non riuscire a muoversi, può voler dire urlare contro il proprio padre che non è di fronte a noi, ma impresso a fuoco nella nostra mente. Questo e molto altro è stato Desh, ultima grande performance di Akram Khan (38 anni, londinese, originario del Bangladesh, uno dei più celebrati coreografi-danzatori della sua generazione), ospite del RomaEuropa Festival 2012. Lo scorso 26, 27 e 28 settembre, i fortunati che si sono trovati di fronte agli 80 minuti di solo-performance di questo piccolo grande uomo, hanno spalancato gli occhi e accettato che la loro mente saltasse sulle spalle di Akram, mentre traballava su una barca di grafite e, di schizzo in schizzo, del mirabile visual designer Tim Yip, ci guidasse in una foresta magica, sopra alberi infiniti, dentro alveari giganteschi, in bocca a un coccodrillo, nel mezzo di una protesta di piazza, oltre una furente lite con la sua famiglia, dentro un incubo di sua figlia; alla ricerca di un senso nella sua vita di un non inglese, non pakistano, non solo ballerino, non solo coreografo, non solo innovatore, non solo uomo, eppure in questo decisamente e erroneamente perfetto. «L’emozione è qualcosa che non si può raccontare» diceva un mio compagno che, dietro questa barriera, si difendeva dai miei attacchi a suon di libri che “doveva assolutamente leggere”, perché in essi si muovevano personaggi su ottovolanti emozionali uguali, anzi migliori di quelli che potevamo provare noi che, in fondo, eravamo solo persone. Beh, il mio amico sbagliava, e non solo in merito ai libri. L’emozione non solo la si può raccontare, ma, incontrando Akram Khan, la si può anche vivere e sono sicuro che se intervistassimo gli spettatori di queste tre serate romane ciascuno avrebbe trovato la sua.
Montaigne diceva: «Bisognerebbe sempre avere gli stivali ai piedi e star pronti ad andare». E anche: «Si conosce ciò da cui si fugge, ma non quello che si cerca.» Akram Khan ha dimostrato che la Patria è un po’ da entrambi i lati e che per fuggire a volte non servono gli stivali e, se si è abbastanza forti, nemmeno i piedi.


Desh
di Akram Khan

Andato in scena presso il Teatro Argentina di Roma, all’interno della rassegna RomaEuropa Festival.


Per approdimenti:
http://www.akramkhancompany.net/html/

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