“L’ultima estate di Catullo” di Alessandro Banda

di / 9 ottobre 2012

«Gli uomini muoiono perché non sanno congiungere l’inizio con la fine», scriveva Alcmeone di Crotone, ma ne L’ultima estate di Catullo di Alessandro Banda, c’è una cornice fluida di acqua e memoria, in cui l’inizio e la fine si incontrano sulla riva di un lago, in cui una vita intera si può raccontare semplicemente guardando le onde, nel loro fuggire continuo e nel loro continuo tornare.

Affacciato sull’acqua, in una villa posta alla fine di una striscia sottile di terra, un bambino ha trascorso estati calde di giochi, di spade di legno e palle di stracci; oggi un uomo, con la testa pesante su un corpo provato, in un’estate malinconica e quasi autunnale, ricorda amaramente e crudelmente narra. Potrebbe farlo in versi, perché è un poeta, ma non sarà lui a parlare stavolta; attraverso la sua bocca parleranno le onde. «Il lago si chiama Benàco. La lingua di terra Sirmione. Il poeta Catullo».

Una scelta sicuramente coraggiosa, quella di Banda, scrittore e insegnante di Merano, che ha accettato la sfida di raccontare la vita di Catullo dall’interno, in un romanzo biografico scritto quasi interamente in prima persona; i suoi occhi si sono aperti per duecento pagine sul I sec. a.C. rianimando un uomo ormai divenuto statua, smuovendo il suo marmo sopito, facendo scorrere ancora il sangue caldo e profondamente umano di un corpo e un’anima consegnati all’oblio. Già, perché è vero che la fama dei versi «trae l’uom del sepolcro e ‘n vita il serba» (F. Petrarca, Triumphus Fame, 1.9), ma dei reali tormenti, delle conquiste e dei pezzi di vita vissuta e vera dei poeti sappiamo sempre ben poco, soprattutto di quelli classici.

Le forme espositive scelte da Banda sono classiche, ma accolgono un lessico sfacciatamente contemporaneo. Pensiamo, ad esempio, al primo capitolo, che ha tutte le caratteristiche di un proemio epico: la prima parola indica l’argomento della narrazione e la penna dell’autore si dichiara strumento attraverso cui la Musa può scrivere il suo divino racconto. «Un uomo. Solo. Seduto davanti a un lago. […] Musa, vergine patrona, racconta tutto quello che sai di lui». Uomo è la prima parola. L’uomo, cullato dalle onde e invecchiato dal pensiero, è il centro, il nucleo motore dell’azione del ricordare.

Gli incontri con i personaggi, invece, si costruiscono attraverso il dialogo, il genere tanto caro a Socrate e Platone che era tornato in voga a Roma con l’avvento della tragedia e soprattutto della commedia; un dialogo dai toni a tratti molto accesi, colorato da storie di donne e di amore fisico. C’è la discesa nell’Ade, ci sono i banchetti, ci sono le indovine. La primadonna è Clodia, moglie del console Quinto Metello Celere, donna che appare angelica a Verona, con il marito, la pelle di petali di rosa e gli occhi ardenti. Catullo si innamora di lei da lontano, con quell’amore devastante che è condiviso con diverse forze, istinti e passioni da tutte le specie animali; l’amore si abbatte come un morbo, provocando gli stessi riconoscibili effetti che Saffo prima di lui aveva descritto: «La notte sugli occhi. Un rombo alle orecchie. La lingua paralizzata […] io ero più verde dell’erba» (cfr. Saffo, Effetti d’amore). L’immedesimazione con la poetessa di Lesbo, lontana nel tempo eppure a lui unita dallo stesso crudele destino, è forte al punto che Catullo farà della sua Clodia la nuova signora di Lesbo, ribattezzandola Lesbia.

Ma l’amour de loin è condannato a divenire un amore bestiale; dopo la morte del marito, Lesbia diventa una figuretta imparruccata e viziosa, che sparisce nella notte per darsi agli schiavi e ai figli degli schiavi, per offrire il suo bianco ventre al fango. Si sporca, Lesbia, e con lei il suo nome: adesso è Lycisca, la ragazza-lupa, ancora fonte inestinguibile di amore per Catullo, ma anche, da adesso, di odio. Siamo nella fucina dell’Odi et amo («Volere una cosa e poi non volerla più e poi rivolerla e disvolerla ancora […] perché io l’amavo e l’odiavo e la riamavo e la riodiavo e la riamavo e la riodiavo ancora, all’infinito e non sapevo perché»).

Il libro, quindi, parla dell’autore e della sua vita, ma parla soprattutto di poesia. Ogni episodio narrato giustifica e conferma il trionfo della poesia rispetto alla cruda realtà. La poesia e la storia, i versi e l’esistenza, il corpo e l’anima si confrontano e a tratti confondono, ma è sempre la poesia a sedurre e ipnotizzare con la sua potente capacità di dare forma e bellezza a ciò che potrebbe essere, ma ancora non è e a ciò che già esiste, ma che in versi può nascere a una nuova vita, perché «tutto possono le parole. E un poeta è il loro padrone, e il loro schiavo».

Intriso di nomi, citazioni e travestimenti mitologici, il racconto di Catullo segue le tracce lasciate dagli eroi di guerra e di poesia dell’antica Grecia e sembra rivolgersi continuamente a quella civiltà dal lontano splendore come una guida, una Stella Polare lucente nel buio del tempo romano. Anche per questo motivo l’architettura metaforica non colpisce per originalità; alcune scelte lessicali, inoltre, risultano esageratamente attuali e ci fanno storcere un po’ il naso.

L’ultima estate di Catullo non è esattamente quello che un lettore può aspettarsi da un libro che parli di un autore classico, ma era forse questo lo scopo dell’autore: un effetto straniante che colpisse, infine, positivamente. Come leggiamo nel risvolto di copertina «non è una ricostruzione storica, ma un sogno sulla figura di Catullo, intessuto di mille citazioni, allusioni, riecheggiamenti, per avvicinarsi sempre più alla sostanza poetica di questo enigmatico e affascinante autore, antico e attualissimo».


(Alessandro Banda, L’ultima estate di Catullo, Guanda, 2012, pp. 195, euro 15,50)

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